Regia di Vittorio De Seta vedi scheda film
Lungometraggio a soggetto girato con tecnica da abilissimo documentarista, questo di De Seta resta uno dei film italiani più importanti degli anni Sessanta (non indegno di figurare al fianco di opere ormai consacrate come il “Salvatore Giuliano” di Rosi) ed uno dei migliori, forse insieme a “Padre padrone” dei Taviani, mai girati in Sardegna. Avvincente e purtroppo verosimile la trama, che parla di un pastore, indebitatosi per comprare un gregge tutto suo, il quale per un caso si trova invischiato in una storia di furto di maiali (l’abigeato, prima che andasse in auge il sequestro di persona, era il reato più comune in Sardegna) e diventa, giocoforza, un fuorilegge. I banditi, secondo De Seta, non sono tali per patrimonio genetico: come dice Michele a proposito del padre, si tratta di uomini sfortunati, che imbracciano il fucile a causa di un’annata disgraziata, nella quale il gregge non ha fruttato, perché le pecore si sono ammalate e sono morte. De Seta ci mostra i pastori sardi come persone fondamentalmente buone, ma immerse in una mentalità arcaica, per la quale la modernità è rappresentata essenzialmente dai fucili e lo Stato Italiano dai Carabinieri e dalle carceri. I pastori sono i vinti verghiani: il Michele Cossu di “Banditi a Orgosolo” potrebbe essere lo ‘Ntoni dei “Malavoglia”. Il contesto e le vicende somigliano molto a quelle narrate dal Verga nel suo capolavoro, anche se, come spesso succede la Sardegna, pur essendo un’isola al pari della Sicilia, viene quasi sempre rappresentata per il suo brullo interno montagnoso. Pregevole è anche la tecnica del regista, un vero uomo orchestra, visto che si occupa anche della fotografia (coadiuvato dall’allora venticinquenne toscano Luciano Tovoli), il quale mette in scena un film con inquadrature che sembrano uscite da un film espressionista ed altre che rimandano perfino ad Ejsenstein. Peccato che nel 1961 si dovessero doppiare tutti i dialoghi secondo un’estetica arcadica (tanto più che i protagonisti hanno le facce giuste dei non professionisti presi direttamente dagli ovili), senza lasciare alcuno spazio al dialetto, coadiuvando magari lo spettatore con l’uso di sottotitoli.
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