Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
In un film lucido, misurato, guidato da sensazioni intime con un cast perfetto Maschile e femminile si incrociano con rigore inquieto e schivo nella Roma di inizio secolo di “La balia” di Marco Bellocchio; un neuropsichiatra silenzioso e sempre un po’ isolato (rispetto alle figure di un esterno in ebollizione che semplicemente lo sfiorano, ma anche rispetto alle figure femminili che lo circondano in casa e in manicomio), sua moglie, raffreddata da un parto che le ha lasciato solo un’identità rifiutata, una giovane balia analfabeta che sa accompagnare le pulsioni di una vita non costretta dai codici e dai busti dell’etica borghese ottocentesca. Annetta è l’incrocio miracolosamente sano tra l’ostinata follia femminile che il dottor Mori vede aggirarsi nel manicomio e il blocco di tormentosa reticenza che ha visto svilupparsi in sua moglie; è una persona che (come scriverà per lei il dottore in una lettera al marito lontano) ricomincia sempre, non vive in attesa e non ha paura delle cose che non conosce. Ed è la persona che, riscritta con moderna consapevolezza da Bellocchio e da Daniela Caselli, conferisce una svolta quasi di speranza all’ineluttabile pessimismo della novella di Pirandello alla quale il film è ispirato. Inquadrato con pulizia meticolosa, percorso da occhiate, rumori, piccoli gesti che si sfuggono appena stanno per intrecciarsi, “La balia” è un film guidato da sensazioni intime, dai dubbi nervosi e dagli scatti stizzosi di una madre alta e pallida e dal progressivo ammorbidimento di un padre che è costretto a uscire dal proprio ruolo. Nel momento in cui il protagonista prende in braccio il bambino e canta per calmarlo, la balia ha terminato il proprio lavoro, e può ripartire. \
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