Regia di Florian Zeller vedi scheda film
Non solo un veicolo per la straordinaria interpretazione di un mostro sacro, ma un disorientante viaggio che ci trascina all'interno della mente frammentata e confusa di un malato di Alzheimer, realizzando un efficacissimo parallelismo tra la costruzione drammatica dell'opera ed il suo soggetto.
Prima ancora di iniziare la recensione, una nota sull'ultima notte degli Oscar, dato che l'interpretazione di Anthony Hopkins in questo film gli ha fatto agguantare la sua seconda statuetta. Come caspita si fa a dire che la vittoria di Sir Anthony abbia “rovinato” il climax della serata degli Academy Awards, occasione in cui il premio al Miglior Attore Protagonista era stato insolitamente spostato all'ultimo posto, di solito logicamente riservato al Miglior Film, per celebrare un'attesa vittoria postuma di Chadwick Boseman e invece la vittoria a sorpresa del veterano inglese, nemmeno presente alla premiazione, avrebbe guastato la festa?!?
Macché rovinato e guastato, è stata una vittoria meritatissima, a ottantatré anni, per quella che mi è parsa indubbiamente l'interpretazione maschile dell'anno, un concentrato micidiale di intensità, spaesamento, rabbiosa ostinazione e fragilità nel comporre il suo ritratto dell'inesorabile sprofondare della mente di un anziano nella voragine oscura del morbo di Alzheimer.
Una recitazione tra l'altro molto impegnativa alla sua età, perché molto fisica, basata sul volto e sul corpo, con dimostrazione di straordinaria capacità nel rendere credibili i frequenti cambi repentini di umore e percezione vissuti dal suo personaggio. Si riveda quando l'arrivo della giovane badante lo spinge a gigioneggiare, eccitato come un ragazzo, per poi esplodere improvvisamente in un'attesa e villana cattiveria. Un'interpretazione che diventa straziante quando la demenza lo porta a regredire all'infanzia e piange come un bambino che cerca la mamma: sembra incredibilmente di trovarsi di fronte un decenne intrappolato nel corpo di un ottantenne.
Ma il film non è soltanto un vassoio che ci porge la primizia attoriale di Hopkins. Il regista Florian Zeller, drammaturgo al debutto dietro la macchina da presa che qui adatta suo un dramma già portato con grande successo sul palcoscenico, ha avuto la geniale idea di costruire un film che ci fa rivivere l'esperienza disorientante della demenza senile che devasta la mente del protagonista. Come trascinati all'interno della sua mente frammentata e confusa, anche noi spettatori ci sentiamo ben presto smarriti, tra personaggi che cambiano volto e aspettano, minacciosi intrusi, eventi e situazioni che sembrano ripetersi circolarmente, balzi sconnessi avanti e indietro nel tempo, quadri e orologi che inspiegabilmente spariscono.
E' questo riuscito parallelismo tra la costruzione drammatica dell'opera ed il suo soggetto che innalza The Father ben oltre il - pur dignitoso - rango di “film d'attore” per consegnarci un'opera valevole a tutto tondo. E così, sempre meritatamente, il film ha vinto anche una seconda statuetta agli Oscar, Miglior Sceneggiatura Non Originale, andata a a Christopher Hampton e Florian Zeller. Esagero se dico che persino una vittoria come Miglior Film sarebbe stata appropriata, al posto del - secondo me - sopravvalutato Nomadland?
Come non menzionare infine anche la bravura di Olivia Colman, che avevo già adorato in La Favorita, che regala una performance intensa nel principale ruolo di supporto, quello della figlia, senza farsi oscurare dal mostro sacro Hopkins.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta