Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Credo che questo film rappresenti una delle migliori thriller-story sulla pena di morte negli Usa mai girata. Non per il meccanismo investigativo-probatorio, che rimane sullo sfondo... (vedi recensione)...
Credo che questo film rappresenti una delle migliori thriller-story sulla pena di morte negli Usa mai girata. Non per il meccanismo investigativo-probatorio, che rimane sullo sfondo, nè per l'ambizione polemica rispetto al sistema giudiziario, quasi inesistente al confronto di altre pellicole, ma a mio parere soprattutto per la dinamica emozionale che il regista (ed interprete) e lo sceneggiatore sono riusciti a costruire, evitando il ricorso ad una spartizione semplicistica dei buoni contro i cattivi. Casomai si tratta invece di un'antitesi verità/giustizia.
Personalmente mi sento contrario all'uso della pena di morte, soprattutto per la sua dimostrata inefficacia preventiva (una persona che uccidesse con l'efferatezza e crudeltà necessarie ad essere messa a morte avrebbe di sicuro delle difficoltà a prospettare un concetto così complesso come la propria morte... ed infatti mi sembra si condannino anche disabili e minori). Per non parlare del paradosso epistemico di uccidere un assassino; anche se forse è comprensibile il desiderio di vendetta di fronte all'inconcepibile. Ma la tesi del film non è la ricerca improbabile di un congegno meglio funzionante, quanto piuttosto la difficile congruenza di troppe variabili che concorrano ad un esito, che forse nemmeno alla fine sapremo se è stato veritiero o soltanto verosimile.
Il personaggio del giornalista ex alcoolizzato, con matrimonio distrutto e ghigno beffardo, ma in guerra costante con i propri fallimenti, esistenziali e lavorativi, è sempre perfetto per Clint Eastwood, e mi sembra addirittura volutamente esagerato, al confronto con il colpevole, nero, amato dalla moglie e venerato dalla figlia: si veda ad esempio la scena della petulante e viziatissima figlioletta del giornalista allo zoo, immediatamente contraltata dalla scena della visita, muta ed impotente, della figlia al condannato. Mi è sembrato infatti di intuire una precisa volontà, durante tutto il film, di rendere sempre più caotico ed improvvisato il comportamento quasi disperato del giornalista, e sempre più dignitosamente lucido quello del condannato, con il preciso scopo di aumentare al massimo il differenziale emotivo per condurre direttamente al finale, che oltretutto rimane sempre in bilico. (A proposito: nel 1999 niente onnipresenti cellulari, ed i neri si chiamavano ancora negri senza mai prospettare alcun intento ingiurioso).
A proposito del finale, che auguro, a chi non avesse ancora visto il film, di gustare fino in fondo, trovo azzeccatissima la scelta stilistica dell'ultimissima scena, che sceglie di dilazionare fino agli ultimissimi fotogrammi l'esito del film, regalando un ulteriore pathos ed uno strano senso di risoluzione quasi trascendente.
L'unico elemento che a mio parere poteva essere modificato senza compromettere il ritmo del film è aver voluto raggrumare una vicenda così complicata ed urgente nel solo spazio di una giornata, quando, nel reale, in 24 ore, anche nella organizzatissima e pragmatica America, si sarebbe forse riusciti al massimo a recarsi alla prigione per farsi consegnare i moduli per chiedere un incontro con il condannato a morte...
Da segnalare un divertentissimo scontro tra il giornalista ed il suo direttore (James Woods), pieno di volgarità e dai tempi perfetti. Ed una giovane, semi-esordiente Lucy Liu, che ci aiuta a riprenderci dalla asprezza della scena precedente ambientata nella camera dell'esecuzione capitale.
Il messaggio del film è desolante: al di là della blanda ed ovvia critica alla pena di morte, risulta dalle stesse parole del protagonista, pronunciate in risposta alla moglie disperata del condannato: "è stato un caso". Voto 8.
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