Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Si può leggere il film del sommo Clint su due livelli: una requisitoria contro la pena di morte mascherata da action esistenziale o un thriller muscolare e cerebrale con una vena sociale assai evidente. Non so bene quale possa essere stato il vero motore dell’operazione, ma sono convinto del buon valore del film, qualunque sia la sua vera matrice. Con la perizia magistrale che ormai gli si è attaccata come una zecca, Clint Eastwood realizza con discrezione, senza strafare, senza urlare, senza esporsi in virtuosismi (e senza girare un capolavoro), un film che coniuga il sapore della parabola umana controcorrente, ponendo al centro della scena un antieroe di frontiera che ha perso da tempo la sua partita con la vita. Ad incarnarlo, non era scontato, il cavaliere della valle solitaria offre una prova granitica e al contempo fragile. Lo stile del regista è oramai impregnato nella natura elegante dei classici, iniettato soavemente di un’adrenalina frenata dal divenire degli eventi, calibrato sapientemente sui registri del cinema che rifiuta l’effetto fine a sé stesso preferendo la razionalità del movimento. Su tutto il film (anche sul fantastico dialogo tra il direttore James Woods e il cronista Clint) aleggia il fantasma della questione morale che da una vita coinvolge l’America: perché la pena capitale anche quando non si giunge alla prova contraria?
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