Regia di Paul Auster vedi scheda film
Fenomenologia dell'ammanicamento. Può succedere che sei uno scrittore mediocre, molto amato dal pubblico di massa per le stesse ragioni per cui è venerato uno come Paulo Coelho (leggere l'illuminante saggio di Raffele Simone, La terza fase, per credere), se conosci il jet set newyorchese, se ti sei fatto amico un regista cinese trapiantato in America che si chiama Wayne Wang che, come te, si dà arie da intellettuale ma poi gira film come Un amore a cinque stelle o L'ultima vacanza, beh, allora può anche darsi che qualcuno ti faccia fare un film, o magari due. È quanto è accaduto a Paul Auster, che dopo avere licenziato il primo lungometraggio a firma singola, Blue in the face, ha firmato questa specie di thriller parapsicologico sgangherato come pochi altri e di inarrivabile tracotanza. Il delirio narrativo del regista-scrittore parte da un musicista jazz (Keitel) che durante un concerto viene colpito dalla pallottola di un fan. Convinto di dover abbandonare la musica (ha il polmone perforato), l'uomo una sera si imbatte casualmente in un cadavere che reca con sé una pietra magica, la quale diventerà la fonte di tutti i suoi guai, finendo col coinvolgere anche la sua fidanzata, aspirante attrice (Sorvino). Quanto peyote avesse assunto Auster durante la redazione del copione e le riprese non è dato sapere. Ma l'enigma ancora più impenetrabile è un altro: perché gente del rango di Harvey Keitel, Mira Sorvino, Vanessa Redgrave e Willem Dafoe si è prestata a quest'operazione insulsa?
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