Regia di George Clooney vedi scheda film
NETFLIX
Osservatorio Barneau – Circolo Polare Artico – febbraio 2049 – tre settimane dopo l'accaduto.
“Un malato terminale che sopravvive al resto dell'umanità”.
Succede per davvero... si fa per dire, nella finzione del caso, ovviamente, perché costui è uno scienziato di fama, tal Augustine, che sceglie di restare al Polo quando tutti, scienziati, tecnici, operai, manovalanza e familiari, abbandonano la base per raggiungere ognuno la propria casa, in un pianeta sull'orlo del collasso, per finire presso il proprio domicilio quel poco che resta da vivere di un pianeta avvelenato ed agli sgoccioli.
L'uomo, pur in fin di vita, sceglie di restare perché quella ormai è la sua casa e per cercare di comunicare con coloro che, a conoscenza dello stato di malessere in cui gravava il pianeta Terra, si sono messi in viaggio per colonizzare K23, la luna di Giove a lungo sconosciuta, reputata un habitat così similare a quello terrestre, da pensare di poter essere destinato ad una nuova colonizzazione umana.
Da quel momento seguiamo sia la vita solitaria di Augustine, scalfita nella sua solinga quotidiana missione dal manifestarsi, tra gli arredi essenziali e spogli della base scientifica, di una bimba misteriosa, silenziosa ma curiosa, che finisce per seguirlo quando le circostanze costringono lo studioso a trasferirsi ancora più a nord, per raggiungere un altro punto ancor più estremo con cui continuare a comunicare con le missioni spaziali; sia una di queste ultime, che sta facendo ritorno dal satellite naturale di Giove ormai colonizzato, pieni di ottimismo per le scoperte riscontrate su quel nuovo mondo del tutto adatto per rifondare una civiltà.
Il contatto tra Augustine e la giovane astronauta in stato interessante Sully, permetterà agli astronauti di comprendere la gravità della situazione, evitando almeno a parte di loro di tornare su un pianeta Terra ormai tossico ed invivibile, per tornarsene su quella luna per rifondare una nuova generazione di umanità.
La tanto agognata trasposizione del romanzo La distanza tra le stelle, di Lily Brooks-Dalton, trova finalmente una sua concretizzazione grazie alla tenacia di George Clooney di far proprio il progetto, e grazie a Netflix che produce e finanzia l'ambiziosa operazione di trasposizione.
Una storia che, adattata sullo schermo, non manca di elementi affascinanti, come si presenta di fatto l'ambientazione della parte “polare” con Clooney protagonista assoluto assieme alla bimbetta misteriosa...ma nemmeno troppo....suvvia.
Presto tuttavia, soprattutto sul versante del secondo spunto narrativo, ovvero quello della base spaziale facente ritorno dalla missione, peraltro completamente riuscita, su K23, cominciano ad affiorare nel film, di fatto completamente e spudoratamente mainstream, piacione e zuccheroso sino all'inverosimile (e Clooney, specie nei suoi primi due film da regista, risultava tutto fuorché un autore succube di nefaste influenze convenzionali) falle ed inverosimiglianze narrative, che reiterate ed insistite, degenerano in voragini sempre più devastanti, persino più pericolose e micidiali dei detriti spaziali che gli astronauti ad un certo punto devono affrontare (senza nessuna originalità peraltro, considerato le pellicole che recentemente hanno già e con miglior esito affrontato la medesima drammatica situazione).
Ingenuità come il Clooney malato terminale che cade in acqua (del Polo Nord) rimanendo in camicia, e si sistema ed asciuga come se niente fosse nella tormenta a temperature disumane, trovando chissà dove un piumino asciutto con visiera di pelliccia, o la placida astronauta Sully che, in gravidanza avanzata, se ne esce a fare un giretto nello spazio per aggiustare il radar, mentre i colleghi all'interno mettono su una bella musichetta e canticchiano adoranti mirando la futura mammina che circumnaviga l'astronave - ma ne succedono di tutti i colori nel film!....meglio non aggiungere altro...) sorrette dall'esigenza irrefrenabile e smodata di perdersi nella solita morale buonista ed ottusa, nel solito sentimentalismo zuccheroso inguaribilmente americano, con – of course - sempre e costantemente la sacra famiglia posta al centro di ogni obiettivo ed avveniristica, oltre che improbabile, svolta narrativa intrapresa.
Ecco solo in quel senso, possiamo dirci di trovarci in zona fantascienza, o fanta-dolciume, ove la melassa finisce per inghiottire ogni residuo di buonsenso e senso critico.
George Clooney con la barba come Barabba, invecchiato e sofferente, da attore se la cava (ben meglio che da regista), tutti gli altri interpreti coinvolti – Felicity Jones, David Oyelowo (coppia non certo a caso multirazziale), Kayle Chandler, Demian Bichir, soffrono e desistono, inutilmente soggiogati dalla prevedibilità e piattezza dei propri personaggi, cesellati senza nessuno spessore che li possa distinguere da centinaia di altri personaggi-fotocopia intravisti in produzioni seriali e concepite con lo stampino, od approssimativamente come questa accozzaglia di luoghi comuni e sentimentalismi spicci.
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