Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Con ogni probabilità Gus Van Sant ancora si sogna la notte ciò che venne scritto del suo Psycho quando il film trovò distribuzione nelle sale, dapprima a ridosso di Natale negli Stati Uniti e quindi in giro per il mondo (in Italia arrivò a febbraio del 1999, quando il patatrac critico era già una realtà consolidata). Altro che gli incubi derivati dalle turpitudini che avvengono al Bates Motel! Altro che l’angoscia provata da Marion Crane dopo l’incontro lungo la strada verso la California con il poliziotto! Nel giro di appena dodici mesi il regista di Louisville, Kentucky, passò infatti dalla nomination all’Oscar come miglior regista per Will Hunting – Genio ribelle (la statuetta veleggiò nelle mani di James Cameron per Titanic) all’acclamazione – si fa per dire – come peggior regista ai Razzie Awards, in grado di mettersi alle spalle un carneade come Jeremiah S. Chechik (The Avengers – Agenti speciali), il Michael Bay di Armageddon e il Roland Emmerich di Godzilla e perfino un Arthur Hiller “apocrifo”, visto che Hollywood brucia è firmato con lo pseudonimo collettivo Alan Smithee. La stampa, e in particolar modo quella statunitense, dopotutto fu compatta nello stroncare senza pietà Psycho, e il pubblico si accodò volentieri al gioco del dileggio: il film, che era costato una sessantina di milioni di dollari, né raccattò appena 22 sul mercato interno e altri 15 in giro per il mondo. Una disfatta senza precedenti per Van Sant, che da pochissimo aveva smesso i panni dell’autore indipendente per provare a partecipare alla giostra hollywoodiana. Perfino Will Hunting, che pure la Miramax aveva gestito in modo intelligente il film traducendo un budget di 10 milioni di dollari in un incasso di quasi 250 milioni in tutto il mondo, nasceva sull’onda della scena indie, racconto di (de)formazione nella working class tipico del panorama off-Hollywood del periodo. Il flop clamoroso di Psycho può essere accomunato, nella filmografia di Van Sant, al disastroso esito di Cowgirl – Il nuovo sesso, l’ambizioso tentativo di tradurre in immagini il romanzo cult di Tom Robbins che venne accolto con fischi tanto al Lido di Venezia quanto a Toronto, costringendo il regista a rimontare praticamente l’intero film, senza però trovare una quadra commerciale al tutto. Sarebbe il caso di approfondire la questione relativa agli insuccessi di Van Sant negli anni Novanta, perché in entrambi i casi l’impressione è che l’autore si sia trovato di fronte un muro granitico ma già colmo di pregiudizi, incapace di cogliere la reale complessità, e il reale valore, delle pellicole.
Se per Cowgirl pesò una narrazione dichiaratamente destrutturata, e un immaginario che non inseguiva mai la moda corrente (oltre forse a una percezione di vecchiaia dei concetti espressi da Robbins nel romanzo: l’epica lisergica troverà la sua vendetta in quel di Hollywood qualche anno più tardi, sul finire del millennio, con Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam), su Psycho si abbatté una valanga di accuse di lesa maestà. Come si può osare rimettere in gioco sir Alfred Hitchcock? Non che si trattasse del primo caso, ovviamente: a Danny De Vito venne “perdonato” Getta la mamma dal treno, variopinto (e geniale) ripresa del plot de L’altro uomo, perché spingeva abbondantemente il pedale sull’acceleratore della parodia, e non sul confronto diretto. Anche i Rebecca successivi al capolavoro del 1940 passarono senza eccessivi patimenti critici, perché tutti pensati e prodotti per il piccolo schermo (nel 1962 diretto da Boris Sagal e nel 1979 da Simon Langton, curiosamente entrambi con Anna Massey nel ruolo della signora Danvers; c’è persino un catastrofico adattamento italiano, prodotto nel 2008 dalla Rai con Riccardo Milani alla regia, Alessio Boni come Max de Winter, Cristiana Capotondi nel ruolo della protagonista e Mariangela Melato a interpretare la Danvers… Meglio dimenticare), e i film del periodo inglese vennero rimessi in gioco senza scosse telluriche, sfruttando altresì l’occasione per riscoprire gli originali hitchcockiani. Negli anni Novanta, con Hitchcock morto da oltre tre lustri, Andrew Davis osò rifare Delitto perfetto, in un’operazione mediocre, priva di interesse tanto sotto il versante della suspense quanto sotto quello del gioco interno al cinema, e al suo eterno ri-make (come direbbe Jean-Luc Godard): rimaneva solo l’appiglio del divismo, con Michael Douglas a indossare i panni che furono di Ray Milland e una scipita Gwyneth Paltrow a misurarsi con Grace Kelly, in una sfida inevitabilmente persa in partenza. Ma allora, visti i precedenti, perché ci si accanì con cotanta foga sul lavoro di Gus Van Sant? Perché si decise di eleggerlo a simbolo imperituro di ciò che non andava fatto, pensando di punirne uno per educarne cento? Per due motivi, per lo più. Innanzitutto Psycho non è Il delitto perfetto, né L’altro uomo, e neppure ovviamente Rebecca: non lo è all’interno degli studi critici, e ancor meno se ci si sofferma sull’immaginario collettivo, e ciò che comporta. Psycho è la quintessenza dell’ammirazione hitchcockiana. Sarebbe come rimettere in scena (pensando ad altri autori) Quarto potere, Il settimo sigillo, 8 ½, Sentieri selvaggi, Rashomon, Tempi moderni. Impensabile, no?
E proprio partendo da questa suggestione si può in realtà comprendere ancora meglio la potenza espressiva di un’operazione coraggiosa e stratificata come quella messa a punto da Gus Van Sant. Non si tratta di affrontare l’originale come si trattasse di una storia, una narrazione dell’orrore da diffondere oralmente davanti a un focolare domestico, magari nelle lunghe sere invernali. Van Sant opera come se non fosse mai esistita la matrice originale da cui trasse ispirazione Hitchcock, vale a dire il romanzo di Robert Bloch. Per Van Sant, uomo di cinema, esiste solo uno Psycho, ed è quello diretto da Alfred Hitchcock nel 1960. Null’altro che questo. Eliminando la fonte letteraria Van Sant decide di attingere a una e una sola fonte: quella dell’immagine preesistente. La storia di Marion Crane che si ritrova tra le mani un bel mucchio di dollari (grazie all’inflazione e al costo della vita la cifra viene decuplicata rispetto al 1960, a dimostrazione di un pensiero che in nessun modo e in nessun caso vuole essere nostalgico o passatista) e decide di fuggire con questi per raggiungere il fidanzato in California, lei che vive e lavora a Phoenix, per poi imbattersi casualmente e fatalmente nello squinternato Motel gestito da Norman Bates e da sua madre, ha senso – afferma a ogni inquadratura Van Sant – solo come immagine. In latino imago assumeva connotati di senso tra loro assai diversi: era l’immagine, così come la si intende oggi, ma anche il fantasma, il concetto, la rappresentazione mentale, il sogno, l’illusione e il pensiero, l’eco perfino, e l’apologo. Van Sant ne è consapevole, e in base a questa riflessione (sì, imago assumeva anche questo valore) decide che il suo film non potrà essere altro che non la replica, inquadratura per inquadratura, sequenza per sequenza, scena per scena, di ciò che già fece Hitchcock quasi quarant’anni prima. C’è un termine che si utilizza per un approccio simile, ed è shot-for-shot, fotogramma per fotogramma. In pochi hanno il coraggio, la sfrontatezza e padroneggiano la complessità teorica del filmare necessari per comprendere cosa significhi rifare un’immagine: Michael Haneke lo farà un decennio più tardi per Funny Games, ma in fin dei conti si tratterà di un gioco più semplice, visto che anche il film del 1997 con lo stesso titolo lo aveva diretto lui, e l’unica cosa a cambiare è il sistema produttivo – la natia Austria nel primo caso, Hollywood nel secondo. Altri film imitano ciò da cui prendono ispirazione, ma non è la stessa cosa. Van Sant non ha bisogno di imitare, il suo obiettivo non è “rendere un’atmosfera”: lui replica, palesando in modo evidente la natura del prodotto che sta realizzando. Hollywood vuole un prodotto da sfruttare economicamente in modo ciclico, e Van Sant lo ricicla, nel senso più puro e alto del termine. Rivendica il fatto che non possa esistere uno Psycho diverso da quello pensato da Hitchcock, e nel rivendicare ciò non lo pone come un idolo intoccabile ma come qualcosa che può esistere ancora, e di nuovo, solo che sempre e soltanto in un’unica forma. Quella perfetta del 1960. Si concede solo il lusso del colore – che Hitchcock evitò per non incorrere in censure eccessive per le sequenze più truculente, dove si sarebbe visto il rosso del sangue –, qualche dissolvenza incrociata in più (si riveda il finale, dove riappare – imago? – anche Anthony Perkins a ribadire il concetto alla base del film), un paio di inserti subliminali durante l'omicidio dell'investitore privato Arbogast (quasi a voler lasciare una firma, appunto, sublimanale riguardante la cifra stilistica, nonché la poetica del regista; la mucca, già vista nel cinema di Van Sant, o la donna bionda con la mascherina, come a voler sottolineare una certa propensione edipica e una curvatura freudiana di Norman Bates), un accenno di masturbazione da parte del killer psicopatico (così da sottolineare, in maniera, comunque, assolutamente non pesante, la componente sessuale tipica delle tematiche trattate nei film del filmmaker statunitense) e il movimento di macchina con cui si apre la pellicola, che era quello che per limiti di budget a Hitchcock non fu possibile portare a termine. Tra idolatria e cinefilia e tra adattamento e rifacimento Gus Van Sant sa dove collocarsi. Ma la teoria è qualcosa di troppo raffinato per essere colta dalla maggior parte degli spettatori, e degli addetti ai lavori. Per fortuna c’è il tempo a ristabilire l’equità nell’arte, se se ne ha la voglia.
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Analisi di Raffaele Maele, scritta per la rivista online Quinlain.it
Replicata, con l'aggiunta, anche qua, di qualche piccolo inserto subliminale, da Manuel Piras.
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