Regia di Gary Ross vedi scheda film
Gli anni cinquanta erano televisivamente in bianco e nero, e noi (ormai “vecchietti”) che vedevamo a colori solo fino al bordo del video, eravamo cosi tremendamente affascinati da quella vita nella scatola, da esserne magicamente contaminati fino a trasformare anche i nostri sogni in rigoroso bianco e nero, al massimo sfumato di grigio e bianco sporco.
E qui la gran botta di genio di Ross che interagisce con quello stato d'animo inquinando di colore a spruzzo emozioni antiche, esponendocele in forma insensibilmente elementare, riducendole ad un grigio emozionale che appiattisce sentimenti e percezioni.
E seppur ovvia, l'iperbole del bianconero abbrutente, gioca di sponda col vivido contrasto che suscita in chi guarda, con noi spettatori ad affibbiare valenze multiple, anche a colori ovvi in un contesto di normale technicolor, e capita un po' come col cappottino rosso della bimba di Schindler's list, che si aggirava inquietantemente pigmentata nel magma decolorato della tragedia...
ecco la morale di Pleasantville: da appiattimento ad esplosione di vita.
Volutamente - in partenza -, sottoforma di bianconero elementare, senza alcun divario e con l'azzeramento di gradazione, inserito per di più in (auto)meccanismi di aridità totale.
Potremmo citare, in contrapposizione, Angel-A dal cui sgargiante bianco e nero Besson tira fuori una Parigi sfavillante ed una storia intrecciata di sfumature micidiali.
Dobbiamo pensare a colori, dobbiamo scrollarci dall’omologazione televisiva, politica, sociale.
Questo il messaggio da cogliere tra le righe, anzi, più che altro tra le cromie.. ;)
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