Regia di Naomi Kawase vedi scheda film
Il film si apre raccontando di un piccolo conflitto scolastico fra genitori: il piccolo Asato, accusato di aver spinto un compagno di asilo e di averne provocato la caduta, nega la colpa e sua madre Satoko (Hiromi Nagasaku), che gli crede, deve difendersi dalla aggressività dei genitori del bambino incidentato.
La diatriba si risolve presto (il buon Asato dice la verità), ma la narrazione si allarga per presentare i vari soggetti coinvolti e raccontarne le storie: e così scopriamo che il piccolo Asato che non è il figlio di Satoko ma di Hikari, una quattordicenne rimasta incinta del suo primo fidanzatino e costretta dai genitori benpensanti ad abbandonare il neonato a Baby Baton, una struttura vicino a Hirishima che accoglie e accompagna al parto le ragazze incinte e organizza adozioni; e conosciamo anche Asami, la dolce “madre delle ragazze” che ha fondato la casa di accoglienza. E assistiamo allo struggente momento in cui Hikari si rassegna a partorire nella struttura, rinuncia al bambino e accetta che venga affidato in adozione alla dolce Satoko.
Ma dopo cinque anni ritroviamo la piccola Hiraki che, diventata donna fra lacerazioni e tormenti, rintraccia i genitori del suo piccolo e vorrebbe “recuperalo” o forse solamente per riconciliarsi con se stessa, superare i sensi di colpa per l’abbandono del piccolo, ritrovarsi, lenire sofferenze.
E questo insidia ovviamente gli altri delicati equilibri raggiunti dalla famiglia affidataria che, col piccolo dolce Asato. ha stabilito un meraviglioso rapporto.
Tutto il film gira delicatamente attorno al concetto di maternità e all’impatto che ha sulle donne, sugli uomini, sui bambini apparentemente inconsapevoli; e tocca il tema complesso di tutti i tipi di maternità: quella desiderata e negata, realizzata e vietata, rifiutata e sublimata, biologica e surrogata.
Il titolo - madri vere - non per caso è plurale. Le due madri sono ambedue vere: la loro apparente contesa non le sminuisce, il loro conflitto non intacca la tenerezza reciproca, piena come quella che hanno nei confronti del dolcissimo Asato, figlio di entrambe.
E sono madri vere perfino le altre donne comprimarie della storia: la fondatrice sterile della casa alloggio, la prostituta ospite che fa amicizia con Hitari, la madre iperprotettiva del compagno di scuola di Asato, la madre ipocrita di Hirari che nasconde lo scandalo relegando la figlia in un istituto.
Il film procede a sbalzi, con frequenti flashback e salti temporali che riprendono le storie, ne rievocano i precedenti, spiegano rapporti, collegano, annodano. Ma questo andamento diacronico, paradossalmente privo di ritmo, non spezza la narrazione: la delicatezza della mano della regista - Naomi Kawase - armonizza tutto con le inquadrature naturali, sempre leggibili, con la luce chiara e soffusa che mostra l’infelicità dei personaggi, con i volti armoniosi che trasudano emozioni dense sotto l’apparente imperturbabilità orientale, con una capacità di immedesimazione naturale e una partecipazione emotiva straordinaria.
Lo spettatore è invaso da queste armonie che ispirano indulgenza ed empatia e impediscono ogni giudizio, frenano ogni sentenza, inibiscono processi, valutazioni moralistiche e condanne: del resto risulta difficile schierarsi, considerata la capacità della regista di far percepire i misteriosi fili invisibili della dolcezza malinconica che lega le anime delicate delle due madri e la amorevole pietà che le accomuna e in qualche modo lenisce le loro sofferenze
Prevale la compassione.
“Tutti i mari sono collegati” dice il piccolo saggio Asato. Come a voler inconsapevolmente esprimere la percezione del calore che lo circonda e che emana da tutti i personaggi.
Il mare onnipresente è infatti l’implicita metafora che rappresenta lo spirito del film, la maternità calda, i sogni liquidi, l’intimità pacata, la concezione zen della vita, l’equilibrio della sopportazione e il flusso avvolgente delle emozioni.
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