Regia di Andrey Konchalovskiy vedi scheda film
Venezia 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Dopo la parentesi michelangiolesca di due anni orsono Andrei Konchalovsky è tornato con un film che rappresenta idealmente la prosecuzione del cammino artistico intrapreso con "Paradise", film portato in Laguna nel 2016. Con il nuovo "Cari compagni" Konchalovsky ha riannodato le fila del resoconto dei principali eventi che segnarono la Patria Russia durante il XX secolo. L'analisi del maestro è ripresa ponendo l'attenzione su un episodio drammatico del passato sovietico rimasto sepolto negli archivi di stato fino alla recente desecretazione avvenuta con la caduta dell'U.R.S.S.. In "Paradise" Konchalovsky raccontò la discesa agli inferi di una nobildonna russa in esilio a Parigi durante la seconda guerra mondiale. In "Dorogiye tovarishchi" il regista ha fatto un salto temporale di 20 anni in avanti ponendo la Russia al centro della propria disamina, anche dal punto di vista geografico, raccontando la soppressione di uno sciopero indetto dagli operai della città di Novocherkassk. Una carneficina come facilmente si può intuire. Se in "Paradise" l'analisi dei fatti si dipanava dalle movenze di un personaggio simbolo di un certo gruppo etnico e religioso che rievocava, a suo modo, l'antico regime zarista, la nobiltà fuggita alla Rivoluzione e la persecuzione degli ebrei russi, in "Cari compagni" il punto di vista è stato rovesciato con la folla, violentata dal Partito, divenuta emblema del cittadino proletario e lavoratore annientato dallo stesso sistema sociale/socialista che l'avrebbe dovuto accudire ed affiancare. Ad accomunare i due film la scelta di uno splendido bianco e nero che ha sprofondato "Cari compagni" tra le ombre e le luci di un'ideologia confinata in una zona remota del presente, scrutata con il distacco della lontananza ma in grado, se avvicinata, di parlare alla società di oggi. L'analisi storica richiedeva quella distanza emotiva che Konchalovsky ha in qualche modo trasferito sul colore (e sul formato cinematografico) quasi ad allontanare da sé ogni tentazione di giudizio morale. Va detto che il regista russo non avrebbe avuto motivo di compiacersi di una presunta superiorità della Russia contemporanea vista una certa affinità tra il potere "staliniano" di allora e quello del Putin odierno che, pur su fronti ormai opposti, celebra, ancora oggi, il culto dell'ideologia e della persona a discapito del progresso e della collettività. Mantenendosi, piuttosto, sui binari di una rappresentazione documentaristica del passato, e continuando la sua indagine sulle pulsioni umane al cospetto di ideologie soverchianti, Konchalovsky ci ha raccontato le vicissitudini di Lyudmila nel mezzo di un evento mal gestito dalle autorità sovietiche e ancor peggio cancellato dalla memoria politica e civile. Ad interpretare Lyuda è stata la stessa Yuliya Vysotskaya (moglie e musa del regista) che interpretò la nobile ebrea finita nei campi di sterminio nazisti. Lyuda, però, a contrario di Olga, apparteneva al partito comunista e non avrebbe esitato a sbranare donne come la contessa, attaccate al morbo dello zarismo corrotto e capitalista. Lyuda tuttavia non era il semplice automa uscito dalle fucine dell'indottrinamento bolscevico dell'era post stalinista. Era una donna intelligente e scaltra e sapeva che la fedeltà al regime le avrebbe garantito degli irrinunciabili privilegi come appartenere alla nomenclatura cittadina, scansare le file del razionamento ed accedere a quei borghesissimi beni di lusso che il popolo non avrebbe dovuto vedere per non corrompere la propria adesione ai valori proletari e socialisti. Sostanzialmente Lyuda si muoveva su una terra di nessuno in cui il tornaconto si sposava segretamente alla fierezza di un'ideologia che le chiedeva una mansueta obbedienza in cambio di uno status sociale superiore agli occhi della cittadinanza. La soppressione del movimento sindacale che si era organizzato spontaneamente per protestare contro l'esiguo potere d'acquisto delle retribuzioni salariali, conferite agli operai di una fabbrica di locomotive, aveva causato in Lyuda le prime increspature ideologiche, soprattutto dopo la scomparsa della figlia Svetka coinvolta nelle proteste di piazza. Con l'aiuto di un agente del KGB la donna aveva preso la decisione pericolosa di percorrere le tracce della figlia scomparsa dopo la purga. Una scelta difficile perché significava bussare alle porte dell'ospedale, dell'obitorio, dei cimiteri. Significava fare domande a cui nessuno voleva rispondere, tormentare vicini arroccati in casa e impietriti dalla paura o inventare scuse poco plausibili per lasciare una città assediata dall'esercito e cercare altrove indizi di morte che i pezzi grossi del partito, dei servizi segreti, dei militari e del governo locale avevano spazzato sotto un tappeto di silenzio. Lavato il sangue della piazza, oppresso il popolo con il terrore di rappresaglie, seppelliti velocemente i morti senza dar prova della loro dipartita ai famigliari il mondo di Lyudmila iniziò a scricchiolare sotto quei piedi avvolti dalle setose calze di nylon di provenienza straniera.
Konchalovsky ha ricreato uno splendido personaggio, che ha mantenuto inalterato il dualismo tra ambizione e fedeltà al partito, tra disincanto e cieca obbedienza alla causa anche nei momenti drammatici del ritrovamento. In Lyudmila il maestro russo ha visto milioni di connazionali che davanti al naufragio della romantica ideologia socialista hanno voluto e dovuto ricavarsi una posizione sicura per sopravvivere alla recrudescenza del sistema dittatoriale che non potè rinunciare nemmeno dopo la morte di Stalin all'esercizio dell'oppressione per mandare avanti un paese autarchico, imploso su stesso, incapace di rispettare i piani economici prestabiliti. Lyuda ha dato prova di conoscere il gioco e di saperlo affrontare grazie alla disincantata furbizia che prima le aveva consentito di fare una vita "borghese" e che poi le permise di farsi aprire le porte davanti ai dinieghi. Davanti al crollo drammatico delle puerili certezze ideologiche, alla rabbia per la fine di un sogno Lyuda non si è tuttavia dissociata ma si è imboccata le maniche per affrontare la fase successiva di quell'esistenza spezzata dalla falce e dal martello dell'autoritarismo sovietico. Mentre il nonno, incurante della propria incolumità, indossava, convinto della fine dei suoi giorni, la divisa di soldato dei Romanov, aborrendo la visione comunista della società, alla più pragmatica Lyudmila non restava che abbandonarsi alla speranza di un nuovo inizio con lo stesso ingenuo ottimismo di una sovietica "Rossella", invocante speranzosa, per sé e per la sua famiglia, un avvenire simile al glorioso passato socialista.
"Cari compagni" è un film sulla resilienza, sulla paura e sull'istinto di sopravvivenza dei singoli, disposti a compromessi di fronte alla cattiva condotta dei governi e alla trasformazione delle idee in ideologie. Andrei Konchalovsky, ormai ottantatreenne ci ha lasciato un ritratto della moralità, tutt'altro che impeccabile, del proprio paese, e alla stregua dell'intenso "Peterloo" di Mike Leigh, al fianco del quale, fatalmente, lo collocherei, ha gettato uno sguardo indicativo sulla siderale distanza tra il popolo e coloro che sono chiamati a rappresentarlo.
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