Regia di Roberto San Sebastián vedi scheda film
Ne hanno parlato come di American Pie (Paul Weitz, 1999) che si incontra con David Cronemberg. È un’etichetta che al pazzo furioso regista bilbaíno Roberto San Sebastián va un po’ stretta, ma azzecca bene l’idea, l’umore e l’estetica di questo folle film che spazza via di colpo ogni logica produttiva del cinema mainstream degli ultimi sterili vent’anni per proporci qualcosa di indefinibile tra la black comedy, il porno soft e l’horror, con una base tematica da teen movie ovvero la disperata rincorsa del protagonista per perdere la verginità durante la notte di capodanno con una donna matura, tale Medea.
È un incubo a occhi aperti, tutto girato in interni, con una forte componente iconografica e un gioco fotografico non indifferente per essere un’opera prima a bassissimo budget. Il giovane Nico, interpretato da Javier Bódalo, già icona di Krámpack (Cesc Gay, 2000) e Promoción fantasma (José Ruiz Caldera, 2012), una volta entrato nell’antro della strega, ovvero un appartamento sporco, sozzo, appestante, pieno di scarafaggi, finestre chiuse, cibo scaduto ovunque, spazzatura ovunque, ruggine, incrostazioni, mobili kitsch e demodé e una statua della dea nepalese Naoshi, simbolo femminile di fertilità, è combattuto tra la pulsione sessuale di finire a letto con una MILF – sogno mostruosamente proibito, e ahimè mai compreso, di molti adolescenti – e la repulsione e quindi l’immediata fuga da quel angusto e orrendo appartamento, un’elevazione alla decima potenza di quello di Jerry O’Connell in Joe’s Apartament (John Payson, 1996). Alla fine decide di restare, e per il povero inizia l’incubo.
Senza inoltrarci in ogni singola svolta narrativa, ciò che conta sapere è che ci troviamo di fronte a un gioiello redivivo del mitico fantaterror spagnolo degli anni settanta, di cui recentemente solo Álex de la Iglesia, Juanma Bajo Ulloa e alcuni titoli di Jaume Balagueró, Eugenio Mira e pure di Bigas Luna hanno saputo riproporre estetiche e poetiche dei film di Jesús Franco, Amando de Ossorio, Narciso Ibáñez Serrador, Paul Naschy e anche León Klimovsky, che seppur ispirati dalla Hammer dell’epoca, risemantizzavano la materia orrorifica, i temi e i motivi e le iconografie classiche in linea con la sensibilità spagnola dell’epoca, ovvero quella franchista. Un certo tremendismo celiano, l’eredità classica degli horror Universal e Hammer, quell’intrusione tutta cattolica della turba sessuale che sfidava la censura franchista, uno humor tutto iberico, cioè esperpentico e grottesco, come innervavano i film dell’epoca, oggi sono alla base degli approcci poetici dei succitati registi, tra cui va ormai annoverato anche Roberto San Sebastián.
Il suo primo lungometraggio, La noche del virgen, non ricalca moduli narrativi e tematiche dell’ormai stantio horror americano mainstream, e non vive nemmeno dell’eredità pura del glorioso fantaterror spagnolo da cui comunque proviene. È piuttosto un Álex de la Iglesia prima maniera, quello di Acción mutante (1993) e El día de la bestia (1995), cioè un regista che con questa sua folle opera prima ha fatto la voce grossa, sferrato un bel pugno nello stomaco allo spettatore attingendo più a intuizioni originali personali che a schemi già visti. Il trash che percorre tutto il film, annunciato da una rivisitazione imbarazzante al limite dello squallore, dello spettacolo televisivo, un classico spagnolo, che segue in diretta gli ultimi secondi dell’ultima notte dell’anno contando le famose dodici campanadas, non è solo la cifra stilistica adottata dal regista per veicolare le proprie istanze autoriali allontanandosi dalla più rigida e intellettuale politica degli autori, ma anche il linguaggio nella cui grammatica deformata e deformante possiamo rileggere l’opera come un manifesto rabbioso sul genere e una protesta contro la sterilizzazione dell’immagine nel XXI secolo.
In Roberto San Sebastián non c’è patinatura né misura, tutto è sporco ed esagerato. Ci sono sangue, mestruo, vomito e sperma ovunque. La “nuova carne” cronemberghiana trova in La noche del virgen il suo migliore e più lucido proseguimento, in chiave grottesca ovviamente, o meglio esperpentica, sorretta da un umorismo grezzo e dirty, cañí in spagnolo, termine con il quale si identifica l’adolescente di scarsa cultura, aggressivo, di bassa classe sociale, che veste abiti sgargianti e di marca per compensare la pochezza culturale tipo tute, catene e anelli d’oro e tatuaggi ovunque per intenderci. Inoltre, è un film costellato da scene di forte impatto visivo, indecenti, immorali, perturbanti, e a tratti stomachevoli come l’ormai famoso “parto dal culo” di Javier Bódalo dopo esser stato fecondato da Medea: una lunga scena estenuante che sfida la sostenibilità dello sguardo dello spettatore e ogni precedente scatologico, compresa la defecazione in faccia a in Dolce mattatoio (Alberto Cavallone, 1977), tanto che le scene estreme di Baustillo e Maury da À l’intérieur (2007) in avanti vengono tranquillamente derubricate a sola perturbazione.
È di fatti uno dei prodotti più estremi, coraggiosi ed irriverenti del XXI secolo, in cui le varie fisiologie umane, tra il grottesco e il drammatico, superano la loro natura di pretesti comici per diventare linguaggio. Linguaggio ribelle, antagonista, antiborghese, anche se possono sembrare termini anacronistici, ma il cinema e l’arte tutta si nutrono soprattutto di questo approccio anticonvenzionale, che non ha scadenza o periodizzazione storica, per diventare opere politiche. Anche la masturbazione di Javier Bódalo, seppur montata freneticamente, non lascia spazio a dubbi: non ci sono né protesi né controfigure, anche se l’esagerata eiaculazione finale non è certo reale come quella di James Ransone in Ken Park (Larry Clark, 2002), ma questo non interferisce certo con lo stile iperrealista e l’intenzione autoriale del regista che con l’accumulo di fisiologie varie, deiezioni, violenza, scene stomachevoli, porno soft e ogni piccolo dettaglio riconducile all’estetica del ribrezzo, che va oltre lo splatter e il gore codificati, riesce a creare un’opera di estrema rottura del canone orrorifico come di ogni logica e poetica dello sguardo e della sua sostenibilità.
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