Regia di Werner Herzog vedi scheda film
Chiunque legga il Woyzeck non può dimenticarlo facilmente. Eppure si tratta di un dramma breve, frammentario, incompleto, di un giovane autore precocemente scomparso. Ma per come la vita si è identificata con l’arte, fino a violarla, quest’opera è diventata unica, vera, un caso letterario ben oltre la
letteratura, un dramma tagliente del tragico e del grottesco. Alla fine degli anni settanta approda tra le mani del più grande regista tedesco dai tempi di Murnau, che a dire il vero non ne fa un film altrettanto memorabile, ma un adattamento in ogni caso degno della massima considerazione. Il cinema di Herzog e la drammaturgia di Büchner, dunque. Ossia il rapporto uomo-mondo nel segno di un’inanità sfibrata, cupa, dell’individuo separato. La natura come annullamento, senza via d'uscita. Una visione notturna, in cui il sogno si fa per sempre incubo. Woyzeck. O la Modernità. Moderna e regressiva, eticamente, storicamente, culturalmente. L’uomo che non abita il mondo, ma che lo subisce senza speranza. L’istinto holderlinano che tende alla poesia è piegato dalla dissoluzione della realtà storica, dalla distruzione della parola e delle possibilità di codificazione del reale. Herzog ridisegna la fedeltà al testo, con rigore e necessità, per vicinanza all’autore del Lenz, e per sensibilità d’adattamento alle esigenze della scrittura filmica. Assecondando la frammentarietà, l’incompletezza e la divisione in quadri (non in atti) ‘epici’ dell’opera di Büchner, e la marca teatrale del racconto. O della storia. Büchner parlava della “superiorità del genio come farsa per burattini”, vivendo la dualità della natura tra spirito e materialismo, scienza e propensione artistica e metafisica, luce e tenebra, azione e impotenza. Da rivoluzionario sconfitto, tanto quanto lo è Herzog nel cinema, e dunque nella cultura, e nel tempo. Scenario del disincanto verrebbe da dire, dinnanzi agli autori della liberazione inseguita e sfuggente. L’orlo del nichilismo rinviato dalle forze elementari della vita, raffinate in arte, e già coscienti, preparate al niente. Colpisce, di questo film, lo sguardo di Woyzeck/Kinski, perduto, a sfiorare e fissare lo spettatore, per complicità e distanza, e a interrogare quella realtà che rimanda eco e inganni della sua aberrazione, ormai patologica e vera, attendibile come dato del disfacimento umano. Scientifismo e militarismo come dominanti grottesche, e l’umanità misera, umile, indifesa, naturale, grezza della bestia da soma asservita alle abilità manipolatorie di coloro -ma di tutto ciò- che della vita incarnano la fisiologica crudeltà, ma in degradazione. Nel film in questione non si impone un’idea formale, siamo distanti dal soffio ispiratore del Nosferatu (ma Kinski è ancora scolpito nel gelo dell’al di là), o dalla forza barbara dell’Aguirre (anche se i burattini sono pur sempre in primo piano), se non quella della sobrietà e misura espressiva, della linearità spezzata, premessa e poi rotta, al passo con la forma claustrofobica e paratattica del dramma büchneriano. Evidenti nel long take tagliato, nell’enunciazione verbale sospesa e franta, nella progressione narrativa a balzi ed ellittica. Ma il cinema aumenta la meccanicità, in tal caso, addirittura la convenzionalità al cospetto dell’artificio verbale letterario (ad esempio la velocizzazione dell’entrata in scena di Kinski). Ciò che si nota i proposito è una tensione al rigore filologico dinnanzi ad un dramma con il quale esso è certo impossibile, e che risalta proprio per tale motivo. Non solo per il testo che presenta modifiche veniali e comprensibili, ma anche per lo spirito dell’opera condiviso, preservato e quasi amplificato (dai pochi interventi dovuti a effetti tecnici come accelerazioni o slow-motion), e l’aderenza di Herzog a quella che potremmo chiamare “distanza dal mezzo”, ma in contrasto, proprio da parte del regista della verità estatica, la quale si esclude nell’immagine quasi illustrativa, non per povertà ma per scelta fredda, severa, dato che quella, oltretutto, non fa parte della vita degli umili (e dei potenti) della modernità, e del cosmo woyzeckiano che offre solo muri ad ogni tentativo di interpretazione delle voci nascoste e del senso della propria presenza. Herzog rinuncia all’evocazione simbolista, alla potenza estetica, proprio dinnanzi al febbrile tentativo del soldato di collegare in una rete di significati i presagi e le cifre che continuamente si offrono alla sua allucinata esperienza soggettiva (il rosso delle labbra, del sangue o della luna, le putrescenze della vita e del suo immaginario manipolato, le superstiziose e cupe eredità ecclesiastiche, voci, ossessioni e paure). Nessun rischio di aristocratismo, qui si è nel dolore dello sguardo, e nell’impotenza, cosa che anche il giovane drammaturgo, nella sua brevissima esperienza politico-artistica-esistenziale, ha avuto il tempo di conoscere a pieno. Büchner era cosciente dell’ambiguità e dell’illusione della parola, Woyzeck rappresenta la ferita della sua inadeguatezza di fronte alla storia. Il cinema di Herzog procede per altre vie, non quelle dell’autonegazione e della deflagrazione linguistica, ma forse al contrario, di una rigenerazione dell’immagine. Ma un dato è lampante: i due autori sono artisti d’azione (faticosa), mai accomodatisi dietro il guscio dell’arte ma accomunati da una tensione alla vita, alla realtà. Büchner di giorno “usava lo scalpello” (ciò è si occupava di scienza, e nutriva aspirazioni rivoluzionarie), Herzog è un viaggiatore alla continua ricerca. Dunque due figure attualissime nella loro inattualità, come esempi di un’incisività reale che la maggior parte del mondo artistico ridottosi a banale letteratura, e del mondo esterno ridottosi a fiera mercantile, avranno la massima cura di ignorare di qui a svariati secoli. Il mondo è dei capitani e dei dottori, e di woyzeck posseduti, che vanno di fretta con il coltello tra gli occhi, all’ascolto delle nuove voci nell’immaginario della mistificazione.
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