Regia di Luis Mandoki vedi scheda film
Ho letto proprio oggi una curiosa recensione del film scritta da Walter Veltroni per Ciak, in cui sfodera ogni arma per difendere quel che lui reputa uno dei film più struggenti e toccanti degli ultimi anni. Quel che manca davvero ne Le parole che non ti ho detto è proprio una sua dimensione struggente. Ma, dopotutto, trovare qualcosa di davvero dignitoso nella macchina narrativa di Nicholas Spark è davvero difficile. Veltroni dice che Spark è acclamato come un Liaia moderno: magari. Spark mira molto in alto, non si accontenta di essere il beniamino di un pubblico rosa di poche esigenze se non provocate dal bisogno di versare fiumi di lacrime: Spark si prende terribilmente sul serio. E i suoi romanzetti ne sono la dimostrazione. Come poteva il cinema schivare un così redditizio produttore di storie? A tutt’oggi è stata realizzata una manciata di film ispirata ai suoi libri. Il migliore è Le pagine della nostra vita, risollevato dalle magnifiche interpretazioni di Gena Rowlands e James Garner. Anche qui è una vecchia guardia a salvare dallo sfacelo melodrammatico l’intera opera: Paul Newman, seppure alle prese con il primo vero film sbagliato della sua carriera, dona quella giusta atmosfera che rende l’operina dignitosa. Sarà la cristallina potenza avvolgente di quegli occhi che a settant’anni suonati riescono ancora a penetrare. Il suo padre ruvido è la carta vincente di un film che non può far reggere tutto il suo peso su Kevin Costner e Robin Wright, troppo impegnati in smorfiette e sospiri. Paul fa quel che può, ma anche lui è umano. Lo spunto è commovente, ma due ore e passa sono oggettivamente troppe. E così quel che doveva essere una storia di vellutata delicatezza diventa non di rado un greve e prolisso drammone sui rimorsi della coscienza e i conflitti del cuore. Piangere non è reato, però è tutto un po’ programmato.
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