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Vertigo

Regia di Gye-soo Jeon vedi scheda film

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La recensione su Vertigo

di darkglobe
8 stelle

Film esteticamente assai gradevole ed emotivamente coinvolgente la cui peculiarità è riuscire ad esprimere visivamente uno stato d'animo tramite il quale veicolare un duro giudizio critico sulla società sud coreana.

Piccola perla apparsa al FEFF del 2020, ha un titolo evocativo di un'opera del mostro sacro della cinematografia mondiale. Regista ed autore dello script di questa romantic story dai risvolti drammatici è il giovane sud coreano Jeon Gye-soo, autore di opere teatrali, giunto alla realizzazione di Vertigo con alle spalle 3 lungometraggi, tra i quali il musical The Ghost Theater.

Siamo a Seul e l'ambientazione ha il suo fulcro tra i piani di un grattacielo che ospita una grande azienda di informatica. Le giornate sono cadenzate da previsioni metereologiche quotidiane, che oscillano tra prime piogge autunnali, parzialmente nuvoloso, innalzamento della concentrazione di polveri sottili, alta marea o allerta per alti livelli di raggi UV. Le previsioni segnano a ben vedere l'andamento delle vicende personali della giovane protagonista, Seo young (la bellissima Chun Woo-hee), trentenne specializzata in grafica e contrattista in prova, costretta ad attraversare il tunnel delle difficoltà quotidiane di ogni giovane donna coreana in una società ancora troppo maschilista.

Acufene e vertigini costituiscono il suo problema di salute, provocandole giramenti di testa, rimbombi acustici, ronzii di rumore bianco e conseguente nausea, fastidi forse derivanti da una vecchia lesione al timpano provocatale dalle botte del padre quand'era piccola, padre di cui ormai ha perso del tutto le tracce. Di contro la madre convive con uno scaltro approfittatore a Busan e i colloqui telefonici con la figlia sono uno squallido misto di richieste di soldi e lamenti per la propria condizione di vita.

La relazione clandestina di Seo-young con il superiore Jin-soo (Yoo Tae-oh) è un po' l'illusione di una possibilità di fuga dal mondo reale, ma l'amante sembra poco incline alla costruzione di un rapporto che abbia le sembianze di qualcosa di stabile. Fanno tenerezza le poche parole scambiate in cui il desiderio della ragazza pare solo quello di viaggiare "ovunque lontano, agli antipodi della terra", di quel mondo.

C'è però un inaspettato angelo custode per Seo-young, il giovane lavavetri Kwan-woo (Jeong Jae-kwang), ferito da un insopportabile lutto familiare, che si cala quotidanamente dal terrazzo del grattacielo in cui lei lavora. Kwan-woo la osserva silenziosamente, colpito dalle sue sofferenze, e dopo una iniziale compassione scatta l'infatuazione e seguono ripetuti quanto sommessi tentativi di contatto con la donna.

La freddezza architettonica dei luoghi di lavoro e la ripetitività quotidiana delle azioni mattutine enfatizzano il contrasto tra l'umanità femminile e la grettezza del precariato in cui il ruolo delle giovani assunte pare essere quello di lavorare senza sosta e ingraziarsi i capi, dal cui arbitrio dipende il proprio futuro, perfino assecondando avances o molestie sessuali. Si tratta senza ombra di dubbio di una severa condanna da parte del regista, espressa attraverso insoliti strumenti introspettivi, dello stato di subalternità femminile in un sistema di cultura aziendale fondato su classismo e disparità tra i sessi.

La scelta registica di Jeon Gye-soo è incentrata sulla capacità recitativa della protagonista e dei pochi comprimari: dialoghi scarni e molti gesti, sguardi o espressioni che sembrano dire tanto. Il grosso del film regge infatti essenzialmente sulle spalle di Chun Woo-hee, su cui la fotografia di Lee Seong-eun indugia con primissimi piani a focale apertissima, per dilatare lo stacco tra il soggetto e l'ambiente circostante e cogliere ogni minima espressione del volto, esaltando il contrasto tra la sua bellezza ed i tormenti psicologici a cui è sottoposta. Indubbiamente il malessere fisico di Seo-young rispecchia quello di una sofferenza interiore, fatta di ansia, tristezza e solitudine, che pare non riuscire a trovare una via d'uscita percorribile. Stupendo il lungo piano sequenza, accompagnato dalla sola colonna sonora, in cui Seo-young, in piena crisi, cerca un luogo all'interno dell'edificio aziendale in cui isolarsi per sfogarsi in un pianto liberatorio.

La geometria dei luoghi, splendidamente restituiti nella sapiente messa in scena, asettici come in una clinica, spogli e ridotti all'essenziale, asfissianti pur nella loro dilatazione metrica, come nel caso degli open space, è in evidente contrasto con la vita che vi scorre dentro e che prova ad adattarvisi, cercando di dare senso a quel mondo di vacuo arrivismo e disumanità.

Spettacolari le riprese in esterna, con il gioco di specchi delle vetrate e le inquadrature di panorami mozzafiato a dimostrazione di come madre natura continui a resistere nonostante l'urbanizzazione selvaggia dettata da una industrializzazione frettolosa e radicata su un mondo che ha ancora seri pregiudizi culturali da risolvere.

Finale spericolato e per certi versi capace di un'imprevedibile emozione, con uno dei baci mozzafiato più intensi che la storia del cinema ricordi.

La colonna sonora di Kim Dong-ki a tratti ricorda le magie di pianoforte di Tiersen, ma alcune trame sonore paiono richiamare passaggi più classici.

Un film esteticamente assai gradevole ed emotivamente coinvolgente, la cui peculiarità, come si diceva, è riuscire ad esprimere visivamente uno stato d'animo tramite il quale veicolare un duro giudizio critico sulla società sud coreana.

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