Regia di Bob Fosse vedi scheda film
Storia vera di Lenny Bruce, cabarettista celebre per il linguaggio sboccato, morto a soli quarant’anni nel 1966 per una overdose (almeno secondo la versione ufficiale: qui si avanza qualche dubbio fra le righe). Il film procede su due piani: il racconto in ordine cronologico, con i monologhi di Lenny sul palcoscenico che fanno da controcanto ironico alle proprie vicende biografiche, e le interviste alla madre, alla moglie spogliarellista (bravissima Valerie Perrine) e all’agente raccolte dopo la morte di lui. È la consueta storia di ascesa e caduta: il successo, i soldi, le donne, poi la droga, il divorzio, gli arresti per oscenità, i processi, la rovina economica. A vederlo oggi, fa un effetto stranamente schizofrenico: le battute su neri e omosessuali (che, beninteso, Lenny designava con termini molto più coloriti) verrebbero considerate inaccettabili secondo i criteri del politicamente corretto, ma d’altra parte certi termini sono stati sdoganati al punto da non scandalizzare più nessuno; cosicché non è facile apprezzare la forza eversiva di una comicità che all’epoca doveva essere spiazzante (ma che, pare, nel film è stata annacquata). Dustin Hoffman rende con efficacia un personaggio neanche tanto simpatico, allegramente in marcia verso l’autodistruzione. Squillante fotografia in b/n di Bruce Surtees.
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