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La contessa di Hong Kong

Regia di Charles Chaplin vedi scheda film

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La recensione su La contessa di Hong Kong

di LorCio
7 stelle

La contessa di Hong Kong sconta a tutt’oggi il fatto di essere l’ultimo film di Chaplin, l’unico film a colori di Chaplin, il solo film di Chaplin senza Chaplin. Il Chaplin inatteso, lontano dal genio esplosivo del muto e da quello parco e caustico del sonoro, per certi versi il Chaplin rifiutato, detestato, rinnegato. Bisogna intendersi dal principio: pur con questo apparato di perplessità, considerando la levatura dell’autore – e non occorrono parole per decantarne il genio, cosa rende questo film importante o comunque rilevante? Non tanto il suo carattere involontariamente testamentario, perché un Chaplin settantenne non ha bisogno di lasciare un testamento artistico che aggiungesse qualcosa ai capolavori precedenti: è la figura del crepuscolo.

 

 

Non è solo il crepuscolo esistenziale di Chaplin: è il crepuscolo del cinema classico. Tutto, ne La contessa di Hong Kong, ha a che fare con la classicità, dai colori sgargianti e falsi di un’ambientazione elitaria e anacronistica (una nave che viaggia dall’Oriente fino agli States), dall’esotismo di certe situazioni da fotoromanzo (la protagonista è una entreneuse rifugiatasi a Hong Kong dopo la rivoluzione russa) al fascino dei divi (la Loren molto più pimpante e scafata di Brando, che disprezzava il film sentendosi ridicolo nella parte), perfino le musiche dello stesso Chaplin sembrano venire da un mondo perduto e quella cinepresa danzante col mare ingrossato riecheggia un cinema artigianale e vivace.

 

 

Se è vero che i momenti migliori sono quelli che occhieggiano all’estetica del muto, grazie alla goffaggine di Brando e al sessappiglio della Loren nonché agli infallibili caratteristi (e in più i memorabili camei di Margareth Rutherford e Chaplin stesso), è il coté romantico a lasciare un po’ freddini, non a caso laddove si sprecano più parole. E se il film fosse un pretesto per suggerire l’inutilità delle parole, la trappola del sonoro, l’annichilimento generato dalla chiacchiera? Con quella ragazzina che appare tre o quattro volte e non sta un attimo zitta: inizia con «mio padre dice sempre» e si pensa subito all’autore e alla sua beffarda ironia. E sì, forse è “solo” il deludente lavoro di un genio scopertosi ottimo mestierante, ma questa festa dall’esito scontato, irrimediabilmente velato di straziante malinconia, è una strana e misconosciuta perla sulla coscienza della fine.

 

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