Fra le trincee e le lande martoriate dagli orrori del primo conflitto mondiale, attraverso una ricerca estetica che si rifà al Kubrick di Paths of Glory, il Poirot Cinematic Universe si instaura – e si esaurisce (?) – a partire dall’intimo nebuloso del detective belga, il cui passato traumatico tenta di riaffiorare, celato all’ombra d’un paio di baffi grotteschi che promuovono un cinismo recidivo.
Procedendo oltre il sentore di baracconata (a cui aspira quasi fieramente), vacillante ed eterogeno tanto quanto il suo sfortunato ciclo vitale, Death on the Nile è un divertissement capace di mantenersi sospeso nello scorrere ineluttabile del tempo: uno spettacolo inveterato, devoto al materiale di Agatha Christie da cui proviene, eppure impegnato nel costante evolversi volto a ricercare la modernizzazione e quell’inclusione senz’altro impensabile in un ambiente che conserva il retaggio imperialistico: la libertà invocata dalla scrittura permette la contestualizzazione al mondo (e al cinema) dell’oggi, mediante il fiorire di un romanticismo utopico. Le passioni – intese come eventi di feroce emotività contrastanti al razionale – ribaltano l'approccio estetico-narrativo: se l'Orient Express tentava maldestramente di coinvolgere lo spettatore avvinghiandolo in una morsa oltremodo glaciale e claustrofobica, qui l’esotismo e il desiderio d’avventura infiammano, oltreché il viaggio e l’ambizione della scoperta, le pulsioni più viscerali del triangolo (o, meglio, della piramide) amoroso/a. Nel primo caso, la rielaborazione del soggetto portava alla trasposizione (in)volontariamente macchiettistica di un Hercule Poirot più vicino allo sguaiato Sherlock Holmes ritchieano di Robert Downey Jr.; qui, seppur il modus operandi tronfio dell’interprete-regista resti il medesimo (nel bene e nel male), la volontà di ricostruire un minimo di background e di contesto storico-sociale comporta una maggiore umanizzazione – e conseguente introspezione – del racconto e del suo univoco protagonista: sì, poiché al di là dei grandi nomi, da Gal Gadot e Armie Hammer a Annette Bening e Sophie Okonedo (che vanno ad incarnare fiacchi stereotipi), i riflettori sembrano deviare da un delitto la cui risoluzione è facilmente pronosticabile, seguendo invece il percorso tormentato e rancoroso di Poirot in parte parallelo a quello del Kenneth Branagh autore (entrambi bisognosi di controllo ed equilibri), dal bianco e nero che custodisce l’eredità di un amore perduto sino al culmine di una performance musicale che invita a calare qualsivoglia maschera.
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