Regia di Antonio Manetti, Marco Manetti vedi scheda film
Seconda trasposizione del famoso fumetto. I fratelli Manetti stavolta deludono.
Un’ombra si aggira furtiva per la città e poi sfreccia con la sua Jaguar: è Diabolik. Alle calcagna, come di prassi, c'è Ginko. Siamo negli anni sessanta,nella città immaginaria di Clerville, anche se a me sembra Bologna. In giro c'è questo spietato e inafferrabile criminale, del quale nessuno conosce l’identità, chiunque ha la sventura di incrociarlo muore. Diabolik abita, sotto le mentite spoglie di Walter Dorian, in una elegante villa in compagnia della sua fidanzata Elisabeth Gay, donna ingenua e fragile, anche romantica, che cozza contro l'impenetrabilità del compagno e che comunque è ignara della sua doppia vita. Un giorno arriva in città la “femme fatale” l'ereditiera Lady Eva Kant, portando con sé il prezioso diamante rosa, Diabolik non perde tempo e senza scrupoli, uccide il cameriere e ne prende il posto. Incontra l’affascinante vedova, scatta il “coup de foudre”, Eva da vittima diventa presto complice, non solo delle trame criminali, ma anche in amore. Diabolik ed Eva Kant iniziano a fare coppia fissa. Nel frattempo Ginko grazie ad una soffiata, forse involontaria di Elisabeth, individua il rifugio di Diabolik e durante una brillante operazione di polizia riesce ad incastrarlo e arrestarlo. Si celebra il processo,che non può che decretare la pena di morte per il criminale,tuttavia durante il procedimento Diabolik comunica, usando il codice morse, con la compagna e con un escamotage diabolico alla fine,grazie al fondamentale aiuto di Eva, riesce rocambolescamente a scappare, facendo ghigliottinare al posto suo il narcotizzato vice ministro di giustizia, viscido e corrotto pretendente e ricattatore di Eva. Questo è solo il prologo di una storia d'amore e di morte, che ha resistito intatta agli insulti del tempo fino ad oggi. Il racconto che seguiamo nel film s'ispira al terzo albo pubblicato nel 1963, in cui compare per la prima volta Eva Kant, per poi non sparire mai più. I fratelli Manetti tirano giù Diabolik dalle strisce del fumetto e lo portano sullo schermo, in un'atmosfera vintage: ambienti, colori, costumi, grafica, tutto rimanda agli anni Sessanta, in cui le sorelle Angela e Luciana Giussani, compite signore della buona borghesia milanese, inventarono il personaggio del «re del terrore» in albi ideati all'inizio per un pubblico di viaggiatori pendolari; tuttavia in bilico tra noir e poliziesco le storie appassionarono tutti i lettori e Diabolik divenne un fenomeno di massa. L'operazione in cui i registi si cimentano, peraltro difficile, non riesce, l’effetto è straniante fin dalle prime battute, manca l’ironia, marchio di fabbrica dei fratelli e il film si prende troppo sul serio; apprezzabile la messa in scena, tuttavia l’intreccio è semplicistico, i dialoghi scolastici, le battute artificiose, i personaggi a tratti appaiono come caricature;in più ci vengono somministrati con implacabile cadenza, spiegoni superflui, che rallentano ulteriormente la trama,con una sceneggiatura senza slancio e senza verve. Marinelli nel ruolo del protagonista è troppo ingessato e goffo; per sembrare inquietante abbassa il tono della voce e propina sguardi persi nel vuoto. Mastandrea è un Ginko grigio, poco carismatico. Infine, Miriam Leone è l’unica nota positiva: spadroneggia alla grande il ruolo di Eva Kant, che pare tagliato proprio per lei, molto a suo agio nelle vesti di questa dark lady alla quale somiglia anche fisicamente.
Mario Bava aveva realizzato una furba trasposizione per il cinema di Diabolik, a soli sei anni dalla prima uscita dell’opera delle sorelle Giussani, all'epoca partecipi in prima persona alla stesura del progetto, girando un prodotto non perfetto, ma vivace e dal ritmo frenetico, tipico del cinema degli anni ‘60;invece quello dei due registi romani è sbiadito, prolisso e lento. L’adesione dei fratelli Marco e Antonio Manetti al fumetto è totale e questo però in pratica si traduce in un grosso limite, la narrazione ne paga dazio; latitano le sorprese, con poche scene di azione , concentrate soprattutto nell'ultima parte, decisamente più briosa. Mario Bava nel suo adattamento aveva capito che per rendere attraente quel mondo “da vignetta” era necessario compiere una revisione del personaggio, cosi lo aveva ritoccato e aveva rimaneggiato l’opera di base, riuscendo a renderla “cinematografica”, seppure limitato da una tecnologia ancora agli albori. I Manetti invece non riescono a ‘dare vita’ alle loro immagini, che restano anonime e inerti, in un film con scarsa tensione, colpi di scena prevedibili e una “distratta” direzione degli attori, facendo deragliare quello che dovrebbe essere un omaggio al fumetto delle sorelle Giussani, in “parodia involontaria” I due fratelli sono registi di valore, ma questo prodotto è veramente deludente
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