Regia di Antonio Manetti, Marco Manetti vedi scheda film
"Mi dai la caccia nei miei occhi, e quello che fissi è la profondità degli abissi"
Basato sullo storico terzo albo del fumetto nato dal genio delle sorelle Giussani (con alcuni ritocchi della trama ispirati da albi successivi che ampliavano la storia originale), il ritorno al cinema di Diabolik è, a dispetto delle critiche discordanti, un atto d'amore e di venerazione nei confronti del Re del Terrore e del giallo all'italiana. Annullando i propri vezzi registici in favore di un'adesione quasi letterale al materiale di partenza, i fratelli Manetti sembrano essersi messi una maschera di quelle usate da Diabolik per compiere uno dei suoi colpi spericolati e apparentemente impossibili. E in effetti appare chiaro come riproporre fedelmente il mitico fumetto dell'Astorina al pubblico odierno sia un'operazione ad alto tasso di rischio e con scarse probabilità di successo. In un panorama monopolizzato dai cinecomics Marvel e sfidato occasionalmente da film alla Christopher Nolan, figli di un'estetica iperrealista di stampo manniano, un soggetto come Diabolik non può che apparire come una bizzarria vintage ed elegantemente démodé, una reliquia del passato irrimediabilmente distante dai gusti ipercinetici e post-moderni dell'odierno pubblico, specie quello più giovane. Anche il contesto culturale in cui erano ambientate le storie di Diabolik e la carica eversiva ed amorale del personaggio appaiono aliene a degli spettatori abituati ad una realtà già priva di morale e intrisa di nichilismo. Non aiuta neanche la mancanza completa di battutine idiote e umorismo di basso livello che tanto fanno bagnare gli appassionati del cinema targato Marvel, con quel tono che pare sempre abbia paura di prendersi troppo sul serio e allora fa ricorso a mezzucci per allentare la tensione, per svilire la violenza e rendere tutto accettabile alle famigliole felici e politicamente corrette a cui si rivolgono quei film. Ma sono proprio questi i motivi per cui il sottoscritto ha sempre amato Diabolik (in maniera spirituale ovviamente, più carnale nel caso di Eva Kant), pur essendo in teoria fuori target per un'opera del genere: nato negli anni '60, Diabolik rappresenta lo smascheramento del perbenismo borghese della società di allora, l'elemento alieno che si insinua nelle viscere della upper class e la sovverte dall'interno disvelando la sua ipocrisia, la sua vacuità morale e la banalità delle sue aspirazioni. In un'epoca in cui l'impegno politico sembrava la norma per chiunque e (come accadrà negli anni '70) finiva per soffocare vite e aspirazioni di chi si faceva coinvolgere eccessivamente, Diabolik appare come un anarchico individualista dichiaratamente a-politico senza essere populista e orgogliosamente edonista pur essendo anti-borghese. E, a differenza della maggior parte dei cattivi odierni la cui malvagità scaturisce spesso o da un passato doloroso o da una concezione etica deviata, Diabolik non ha bisogno di giustificazioni per fare ciò che fa: ruba e (se necessario) uccide con freddezza per puro calcolo personale, non ponendosi alcun interrogativo morale e prendendosi tutta la responsabilità delle proprie azioni. Soltanto la relazione con Eva Kant finirà, nel corso del tempo (e degli albi), per cambiarlo ed umanizzarlo. E proprio Eva Kant è l'altro personaggio straordinario a cui il fumetto deve la propria originalità e il proprio successo: donna indipendente, emancipata e moderna senza essere politicizzata e femminista, in contrasto con le regole sociali e i valori del tempo, si pone fin da subito come pari del ladro in calzamaglia nera anzichè come spalla o semplice compagna, salvandogli la vita fin dalla sua prima apparizione e diventando la complice inseparabile e fondamentale dello stesso. Non si può poi non spendere due parole sull'ispettore Ginko: sicuramente il più tradizionale e "banale" dei tre personaggi principali, funge però da contraltare perfetto di Diabolik, permettendo al lettore di assumere un punto di vista alternativo a quello della coppia di ladri protagonisti e rendendo combattuta la scelta della parte per cui simpatizzare maggiormente e per cui fare il tifo.
Dicevamo dello stile registico e della confezione estetica del film: semplicemente perfetti. Nonostante il ritmo sia apparso compassato a molti, la regia volutamente "lenta" e spesso occupata ad illustrare piccoli particolari, a mostrare i gadget tecnologici del protagonista e spesso compiaciuta nel ritrarre scorci aventi la plasticità del fumetto mi ha finalmente riportato ai thriller nostrani degli anni '60 e '70 firmati Bava, Fulci e Argento, concedendosi anche un efficace split screen in omaggio a Brian De Palma. La fotografia di Francesca Amitrano è stupenda nel riprodurre le atmosfere cartacee delle città di Clerville e Ghenf, specialmente nelle riprese in notturna, e nel tratteggiare le ombre del rifugio segreto del ladro (e dei suoi recessi mentali), mentre scenografie e costumi contribuiscono ad una ricostruzione degli anni '60 calligrafica e patinata ma proprio per questo fondamentale nell'indurre nello spettatore la sospensione dell'incredulità necessaria per godere di una storia che può avere luogo solo nell'immaginario piccolo mondo di Clerville e dei suoi abitanti, oltre ad accentuare la componente noir della stessa. La sceneggiatura segue pedissequamente gli eventi narrati ne "L'arresto di Diabolik", i quali compongono i primi due terzi del lungometraggio, mentre l'ultimo terzo è dedicato al primo colpo di Diabolik effettuato con l'aiuto di Eva, un episodio non adattato da alcun albo ma assolutamente credibile nella sua ispirazione alla fonte originaria. Al netto di alcuni dialoghi eccessivamente didascalici e di alcune incongruenze nello svolgersi del racconto, il copione azzecca anche le caratterizzazioni dei tre protagonisti, affidati a tre attori che hanno fornito prove comunque più che dignitose: se Luca Marinelli appare un po' ingessato, è comunque encomiabile la sua aderenza al carattere glaciale e distaccato del Diabolik carataceo, il quale ha iniziato a "sciogliersi" solo dopo parecchi albi con la nuova compagna; per contro, Valerio Mastandrea è ottimo nei panni dell'ispettore Ginko e padroneggia con precisione i manierismi dell'integerrimo poliziotto; ma la vera star del film è Miriam Leone, la cui interpretazione di Lady Kant è strabiliante per somiglianza fisica al personaggio, per carisma e anche per espressività. Nonostante i personaggi secondari e le interpretazioni dei rispettivi attori non siano allo stesso livello del terzetto principale, il film scorre via piacevolmente con l'alternarsi della preparazione dei colpi, la loro esecuzione e le susseguenti indagini, con le poche scene d'azione ottimamente girate e una discreta tensione sottolineata dalle belle musiche di Pivio e Aldo De Scalzi. La ciliegina sulla torta è il bel pezzo di Manuel Agnelli, "La profondità degli abissi", che apre e chiude un adattamento completamente diverso dal cult pop di Mario Bava ma con il quale se la gioca alla pari, risultando vincente sul piano dell'attinenza al materiale di partenza.
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