Regia di Antonio Manetti, Marco Manetti vedi scheda film
Diabbolik se deve pronuncia’ co’ ‘na sola B, sinnò è erore.
Diabolik nasce nel 1962 ad opera delle sorelle Giussani, Angela e Luciana, fondatrici dell’Astorina, piccola casa editrice interna all’Astoria Edizioni di Gino Sansoni, marito di Angela.
Il personaggio è frutto della sublimazione di due intuizioni: la creazione letteraria francese di Fantômas e un drammatico caso di cronaca nera accaduto a Torino nel 1958, durante il quale un uomo era stato brutalmente ucciso a coltellate da un assassino che aveva poi sfidato apertamente la polizia a smascherarlo inviando lettere e indovinelli a firma Diabolich, in pieno anticipo quindi sui tempi rispetto alle imprese del serial killer americano Zodiac.
Il fumetto prende la forma del tascabile e viene pensato per il popolo dei pendolari che avrebbero potuto quindi “intascarlo” comodamente durante le trasferte mattutine in treno. Avrebbe dovuto avere una trama noir, essere di facile lettura e breve come un tragitto, appunto, da pendolare.
Il personaggio, ladro glaciale e spietato, si muove nella cittadina immaginaria di Clerville come un fantasma, mimetizzato dalle maschere perfette nella borghesia cittadina, derubando e uccidendo, mettendo a nudo soprattutto le ipocrisie e le piccolezze di quel piccolo pezzo di mondo, sineddoche della società dell’epoca.
A partire dal terzo episodio Diabolik è affiancato dalla splendida Eva Kant che lascia proprio quel mondo artefatto per unirsi alle gesta dell’amato, prima come moglie un po’ sottomessa e poi (molto presto) pienamente complice e sodale delle imprese criminose del compagno.
Il successo è immediato dando origine ad una serie di epigoni del ladro, più o meno riusciti ma sempre identificati con quella K marchio di fabbrica ormai dei personaggi noir italiani. Satanik e Kriminal i più noti, che hanno avuto una vita fortunata in edicola anche se non paragonabile all’impatto che il bel tenebroso ha avuto sulla società dell’epoca, fino alle parodie di Arriva Dorellik diretto da Steno (con Johnny Dorelli) e Cattivik (fumetto di Bonvi prima e di Silver poi) sull’onda delle parodie iniziate dalla Disney con Paperinik.
Diabolik è bello e agile. Intelligente e ricco, elegante e fascinoso, amante pienamente ricambiato di una bellissima donna. E’ libero, slegato dai lacci della vita che imbriglia i destinatari delle sue avventure. Diabolik rappresentava tutto quello che l’uomo medio degli anni 60 non avrebbe potuto essere mai, motivo per cui una buona fetta di pubblico è sempre stato rappresentato dalle gentili signore in cerca di un brivido illecito, moralmente sbilanciato verso la zona d’ombra dei desideri reconditi e inconfessabili.
Un motivo d’evasione eversiva rispetto agli obblighi quotidiani, il fascino del malandrino si sviluppava in quelle tavole semplici, con dialoghi che assomigliavano a slogan, intrighi, trucchi e maschere oltre il limite dell’impossibile.
Diabolik è vivo, dinamico, un mutaforma che prende le identità altrui non solo grazie alle maschere quanto nei modi, nel linguaggio del corpo, nelle dinamiche sociali.
Diabolik è l’ultracorpo che si impossessa delle vite altrui, ne vive a centinaia, diverse, le imita e le sfrutta diventando al contempo specchio e riflesso della società che egli prende di mira, bloccata in un fermo immagine borghese e autoreferenziale. Da qui il carattere reazionario del fumetto che presentava un antieroe criminale che smantellava dall’interno il perbenismo dell’epoca.
Era necessaria un’introduzione al fumetto di Diabolik per affrontare il film scritto e diretto dai fratelli Manetti, grandi fan della pubblicazione e che ad essa si rifanno sicuramente molto di più rispetto a quanto fece Mario Bava nel 1968 con John Phillip Law e Marisa Mell (stupenda) affiancati da Adolfo Celi e Michel Piccoli.
Il suo splendido, visionario Diabolik fu un film di scarso successo e osteggiato da tutti – produzione De Laurentiis e sorelle Giussani compresi – ma il tempo, sempre galantuomo, e i Cahiers du Cinéma, molto più attenti al cinema di genere rispetto alle italiche critiche, ne hanno elevato lo status a capolavoro del cinema popolare italiano.
Il Diabolik dei Manetti Bros. rappresenta il primo capitolo di una trilogia che è già in fase di produzione. Prendendo spunto da due albi della prima ora del fumetto originale, il film è freddo e trattenuto, centellina i momenti d’azione con parsimonia e trova i suoi momenti migliori nella ricostruzione anni ‘60 degli ambienti e dei costumi, nel design degli interni e nella caverna/covo del criminale. C’è uno stile, un’idea di cinema ben precisa che ricerca nei dialoghi scarni declamati come slogan e nella staticità recitativa lo spirito del fumetto, indirizzando tutta l’operazione verso un cinema autoriale, a tratti cupo e drammatico, in netta controtendenza all’iper spettacolarità che monopolizza il cinema action contemporaneo, soprattutto nel genere supereroistico.
Un film che è ovviamente molto analogico, tutto l’armamentario scientifico è un nostalgico retro-futurismo sospeso tra un sogno tecnologico e l’artigianato d’autore. Nella notturna Milano/Clerville, spettrale e disabitata, il fascino di un fantasma dalle maschere perfette (bisogna arrendersi totalmente alla sospensione dell’incredulità) e che semina trabocchetti ovunque provoca lo stesso stupore che si provava leggendo i fumetti.
Luca Marinelli/Diabolik, Miriam Leone/Eva Kant e Valerio Mastrandrea/Ispettore Ginko ricalcano quasi fedelmente i tratti originali dei personaggi e quasi ne replicano la staticità ieratica, un rispetto quasi maniacale dei caratteri che sacrifica un po’ le abilità recitative del terzetto.
E qui vengono i dubbi, tutti legati alla regia e alla direzione degli attori, difetti imputabili solo all’opera dei Manetti Bros.
Questo Diabolik è ritratto come un terminator bloccato in una fissità psicotica che se da un lato ricrea sullo schermo l’immobilismo grafico della tavola, dall’altro riduce la presenza di Marinelli ad una decalcomania senza carisma, sprecando di fatto un potenziale enorme.
Marinelli è robotizzato, la Leone assomiglia certo a Eva ma ammicca e fa le facciotte e fa le boccucce, stronzeggia facendola annusare e non la molla mai, asessuata pure lei, non penetra nella fantasia dello spettatore e non si fa penetrare – ci mancherebbe - dallo spasimante laido di turno (Alessandro Roja). Mastrandrea è ritagliato nel compensato, ligio al ruolo, ma è quello che forse alla fine ne esce meglio anche se il Ginko con inflessione romanesca non si può veramente sentire.
Purtroppo alcune scene infine sono girate in modo goffo, secondo la caratteristica portante dei fratelli registi amanti più del trash che dell’eleganza, con snodi narrativi un po’ alla buona e dialoghi surreali.
Un po’ come il momento della camera d’albergo nella quale Diabolik si nasconde nell’armadio come un amante scoperto di un qualsiasi personaggio della commedia scollacciata anni ‘60, o peggio, di una scenetta del Bagaglino e non aiuta per nulla l’esagerato utilizzo di inflessioni dialettali che arrivano a sganciare lo spettatore dall’affabulazione dello schermo.
Diabolik è un film grafico e felicemente bidimensionale ma sospeso tra pregi e difetti, momenti che funzionano alternati a improvvise cadute di tono, un film sicuramente coraggioso e tutto sommato gradevole ma che avrebbe bisogno di un ricambio in regia visto che tutto bene o male funziona perché funziona tutto il comparto tecnico. Il resto un po’ meno, con pericolose derive verso il ridicolo involontario. Difetti forse ascrivibili a questo primo capitolo, vedremo gli altri due in fase di preparazione, nei quali il personaggio principale non sarà interpretato da Luca Marinelli.
O forse anche in questo caso era solo una maschera?
N.B. Diabbolik se deve pronuncia’ co’ ‘na sola B, sinnò è erore.
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