Regia di Antonio Manetti, Marco Manetti vedi scheda film
Spogliato della fisicità ferina, della sensuale, terrificante minacciosità del personaggio creato dalle sorelle Giussani, il poco diabolico Diabolik/Marinelli s’aggira spaesato, quasi timoroso, impacciato, lungo i crinali di una pellicola che sbaglia clamorosamente approccio: il famigerato, temutissimo ladro e assassino letale nella versione dei Manetti Bros. rasenta l’inconsistenza.
Una figurina smunta che – al netto di (auto)dichiarazioni roboanti («Nessuno si prende gioco di me e rimane vivo»), non a caso lanciate nel trailer – appare più vittima degli eventi che carnefice: il piano geniale rimane sulla carta, enunciato come ogni altra cosa, sempre, mentre il presunto genio del crimine nell’atto dell’agire viene fatalmente inghiottito nelle morbide fauci del caso.
E, difatti, l’altra imperdonabile pecca dell’attesissimo film è l’azione. Non pervenuta, o quasi; dopo un incipit quasi promettente, pur con le sue ingenuità, sostanzialmente scompare per palesarsi in brevissime micro-sequenze di raccordo, sotto l'egida d'altronde di una messinscena di stampo televisivo.
A ergersi purtroppo è una narrazione piatta, iper-didascalica, di dialoghi inefficaci o pesanti, di lungaggini evitabili e passaggi a vuoto ripetuti, con un’inerzia volta alla mera divulgazione forse perché troppo attenta a rispettare le consegne per la creazione del Mito.
Peccato che il Mito non ci sia.
Nemmeno il film c’è.
La noia invece – quantunque sia sentimento esclusivamente personale – è presenza costante e prevalente per lunghi tratti.
I due autori romani optano per un modello filologico nell’impaginare su grande schermo il celeberrimo, iconico personaggio dei fumetti nato negli anni sessanta – e di ciò vi è testimonianza anche nelle scenografie, nei costumi, negli oggetti d’arredo, nei gadget, nelle auto, in alcuni luoghi, nell’evocare fieramente l’italica appartenenza – però pensano (male) di asciugare fino all’estremo il loro inconfondibile stile registico (non sempre felice ma questa è un’altra faccenda), di agire in sottrazione, come per timore reverenziale o per darsi un’impronta più “adulta” (autoriale?), fallendo così però su ogni piano della costruzione filmica.
Manca il ritmo, manca il senso per l’avventura eccitante e pericolosa, manca l’empatia (chi mai vorrebbe aspirare a indossare i panni di questo fantasmatico Re del Terrore?), manca una Clerville credibile, mancano infine pathos ed epica, toni cupi e ombre, ma anche intrattenimento e leggerezza.
133 minuti, chiaramente troppi, di cui non rimane quasi nulla; persino una Miriam Leone che più Eva Kant non si può, stupenda e seducente in ogni inquadratura, spesso è come immobilizzata nello stato di bella statuina (malgrado il guizzo sul finale in direzione di emancipazione femminile, ma allora meritava ben altro spessore), sprecandone quindi sensualità e innato magnetismo.
Doti che non pare possedere l'altrove ottimo Luca Marinelli, il quale sembra indossare la maschera di uno capitato per caso o che si è reso conto del (magrissimo) contesto: semplicemente come Diabolik è inadatto (e non solo per demerito suo). Difetta inoltre la chimica con Eva Kant/Leone: l'amore esplode ma - come il resto - è più frutto di dichiarazioni che non di azioni e capacità di suscitare emozioni, come se fossero generiche istantanee di un fotoromanzo o di una fiction di Mamma Rai.
Alla fine chi ne esce meglio è chi generava meno aspettative (di tutto e di tutti), ovvero Valerio Mastandrea, che personalizza con convinzione l’ispettore Ginko: meno charme in favore di maggior concretezza.
Davvero un’occasione persa – e già si stanno girando ben due sequel, con cambio di protagonista… – il Diabolik firmato Manetti Bros.: non raggiunge, né raggiungerà, alte vette ma neppure la “profondità degli abissi” (per richiamare il bel pezzo di Manuel Agnelli posto in apertura e in chiusura, mentre assai anonimo risulta il commento musicale dei fedelissimi Pivio e Aldo De Scalzi), dirigendosi semmai verso una meritata indifferenza.
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