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Ordet

Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film

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La recensione su Ordet

di Peppe Comune
10 stelle

Nella grande tenuta dei Borgen, nello Jutland in Danimarca, vive il patriarca Morten Borgen (Henrik Malberg) insieme ai tre figli e alla nuora. Mikkel (Hemil Hass Christensen) è il primogenito, un uomo che ha perso la fede in Dio e che neanche le amorevoli attenzioni della moglie Inger (Brigitte Federspiel) sembrano poterlo ricondurre sulla "retta via". Johannes (Preben Lendorff Rye) è in preda ad una profonda crisi mistica, si è talmente immerso negli studi di teologia da credersi la reincarnazione di Gesù Cristo. Anders (Cay Christensen), il più piccolo dei fratelli, è innamorato di Anne (Gerda Nielsen), la figlia di Peter Petersen (Ejner Federspiel), il sarto del paese, ma al loro matrimonio si oppongono entrambi i genitori per insanabili contrasti religiosi. Ad un certo punto, la quiete serenità di casa Borgen, già scossa dalla notizia dell'innamoramento di Andres con una ragazza di altra fede religiosa, è letteralmente spazzata via dalle difficoltà del parto che coinvolgono la povera Inger. La situazione è grave e per salvare la madre bisogna sacrificare il bambino, che è maschio questa volta, come tutti desiderano. Neanche Inger è fuori pericolo e non resta che affidarsi alla preghiera. Le preghiere però potrebbero non bastare e la piccola e innocente Maren (Ann Elisabeth Rud) è l'unica a credere senza indugi che lo zio Johannes possa fare qualcosa per restituirgli la madre sana e salva.

 

scena

Ordet (1955): scena

 

Ci sono film che più di altri necessitano di una conoscenza propedeutica del contesto storico e culturale che fa da sfondo essenziale alle vicende rappresentate e che si accompagna alla cifra stilistica utilizzata. Altrimenti si rischia di non coglierne del tutto il senso  e di rimanere spiazzati di fronte a talune ardimentose liceità di linguaggio cinematografico. Questo aspetto è tanto più vero quando più ci troviamo di fronte a quello che a me piace definire il "cinema adulto" fatto da autori che sono ben consapevoli delle loro enormi capacità intellettuali, quello che sa innalzare la "giovane" arte cinematografica a forma d'espressione sublime, che entra senza soggezione nel vortice del pensiero speculativo e sa uscersene offrendo il suo buon contributo alla causa della conoscenza. "Ordet" (che significa "la parola", liberamente ispirato all'omonima piece teatrale del pastore protestante Kaj Munk e premiato con il Leone d'oro a Venezia) di Carl Theodor Dreyer entra, a mio avviso, a pieno titolo in questa categoria di film, sia per la capacità di piegare alle proprie esigenze particolari i tratti stilistici della corrente culturale dell'espressionismo, che per i contenuti speculativi e il rigore formale che ne reggono la struttura. Al centro del film c'è il tema religioso dell'incondizionata fede in Dio, una fede che può condurre alla pazzia o all'approssimarsi di un sapere assoluto, fare irrigidire in nome di posizioni dogmatiche o aprire la mente in ragione di una verità rivelata. Una fede che può arrecare conforto per chi crede nella salvezza divina, ma che intanto viene mostrata con tutta la sua carica di intolleranza (ci sarà molto di autobiografico in questo aspetto dato che Dreyer venne sottoposto dalla sua famiglia di adozione ad una rigida educazione luterana), sia attraverso la precisa caratterizzazione di due integralisti religiosi, che con la solenne gravità dei toni restituitaci da una tecnica cinematografica più intenta a sottrarre che ad aggiungere. La lentezza della messinscena, tutta circoscritta in pochi ambienti e in poche inquadrature, unita ad un utilizzo delle luci (di chiara impronta espressionista) che tende a far aumentare l'austerità dell'ambientazione (che è propria di quella cultura), servono allo scopo di generare una percepita astrazione spazio-temporale e ad accrescere il senso di liturgica sacralità che aleggia nell'aria. Come da premessa, occorre ricordare che in Danimarca (come in ogni altro paese del nord Europa), il dato religioso aveva (ed ha ancora con tutta probabilità) un ruolo importante nella vita culturale del paese e che al comune ceppo cristiano faceva seguito l'esistenza di numerose confessioni di matrice protestante che si contendevano la primazia religiosa a suon di anatemi rivolti verso gli altri. Andres ed Anne sono innamorati ed in virtù di un amore sincero sono disposti ad andare oltre gli insegnamenti dei padri. Loro sono la nuova generazione pronta ad accogliersi nel nome della genuina onestà di un sentimento. I padri, invece, sono fermi sulle loro posizioni, nessuno dei due può accettare di correre il rischio di vedersi il figlio convertito ad un altra confessione e in una bellissima sequenza, dove comunque, occorre ricordare, il vecchio Morten si mostra molto più incline a vedere se si può trovare una soluzione, si rinfacciano l'un l'altro i limiti delle rispettive confessioni (protestantee Morten, quindi portato a considerare il successo avuto nella vita come il premio ricevuto da Dio per il buon operato svolto, appartenente alla luterana Confessione interiore Peter, quindi più intransigente nelle sue posizioni di partenza, pronto a considerare la colpa come una macchia inestinguibile e ad aspettare la morte come il momento del sospirato riposo). Punto d'incontro diventa la situazione critica che riguarda la salute di Inger, di fronte alla quale, la vagliata complessità delle questioni religiose che trattano, li porta a riconoscere i torti e le ragioni vicendevoli e a farli incontrare nel comune riconoscimento di un unico Dio. Davanti al corpo morente di Inger, l'unica che scorge nella pazzia mistica di Johannes il frutto vivo di una speranza di fede in cui poter ancora investire, è la piccola Maren ("Su avanti, sbrigati zio", dice a un Johannes immerso nel suo misticismo), a cui si deve quell'ingenua innocenza che è propria di chi conserva un istintivo amore per la vita, quella smarrita da una religiosità inabissatasi nella canonica ritualità dei suoi precetti. La pura sincerità della fede in un unico Dio, che sgorga dal cuore e che non conosce pregiudizi di sorta, ha la meglio sul settarismo dogmatico. Questo sembra suggerirci il bellissimo finale del film (che, per quanto celebre, non rivelo, almeno del tutto), indicato come uno dei più intensi della storia del cinema (è certamente uno dei più struggenti che mi sia capitato di vedere), dove la rappresentazione in forma solenne di uno dei principali misteri della fede e fatta in modo da essere accolta indipendentemente dalla convinzioni che si hanno a riguardo. Perchè è cinema allo stato puro, col coraggio di confrontarsi coi grandi temi dell'umanità proponendone delle risposte possibili e con gli strumenti stilistici che gli sono propri portati ad altissimi livelli di espressione formale. E' come la Cappella degli Scrovegni di Giotto : la bellezza non ha religioni. Capolavoro.   

 

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