Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film
Se Gesù Cristo ritornasse in Terra ai giorni nostri, Egli, probabilmente, sceglierebbe di assumere le sembianze di un folle. La moderna sfida della fede, nell’attuale era tecnologica, è infatti quella contro il predominio della ragione, che impedisce di credere ai miracoli, all’esistenza di una volontà superiore e di fenomeni che si collocano al di là della nostra possibilità di comprendere. Il pensiero è una dimensione interamente umana, concreta e soggettiva: è costituito dalla capacità speculativa di astrarre concetti dal dato di fatto, e dalla facoltà logica di dedurre conclusioni dal risultato dell’esperienza sensibile. Vi si contrappone, sul versante religioso, la Parola (Ordet), che, invece, in quanto emanazione divina, è potenza creatrice (il Verbo) e verità rivelata (il Vangelo). Ad essa l’uomo può rispondere, a sua volta, con la preghiera, che esprime amore, speranza e sottomissione nei confronti di un Padre che, Lui solo, può leggere nel nostro cuore e soddisfarne i più profondi desideri. Nell’opera di Kaj Munk, messa in scena da Dreyer, la presenza di Johannes, sedicente Messia, incarna una prospettiva trascendente che prevede, interpreta e modifica quella realtà che, per tutti gli altri, può essere solo assimilata passivamente a posteriori. Gli ambienti chiusi, dentro i quali si svolge gran parte dell’azione, simboleggiano la schiavitù a cui si riduce l’uomo quando non confida più nell’esistenza di un Dio che presiede al corso degli eventi, disponendoli in funzione di una suprema forma di bene. Solo consegnando la propria vita a Lui, l’inspiegabilità del dolore può diventare la preziosa chiave di accesso al Mistero, anziché assumere l’opprimente veste dell’inaccettabilità. La riflessione razionale, di per sé, non può condurci fuori dai confini della cecità, dell’ignoranza, perché la dialettica è un metodo privo di contenuto, in grado di elaborare significati preesistenti, senza, però, poterne acquisire di nuovi. La macchina da presa, nei lunghi piani sequenza di questo film, percorre la scena da una parte all’altra, come per seguire il cammino ondeggiante delle idee, il gioco di rimbalzi tra tesi e antitesi, il palleggio concettuale tra un gesto ed il suo effetto. Ogni nuova entrata nel campo visivo è come un’ipotesi aggiuntiva, una notizia spiazzante, una considerazione collaterale che sopraggiunge per dare nuovo impulso ad un discorso a tratti stagnante intorno ad inconciliabili posizioni dogmatiche. La regia imita così la continuità circolare del percorso mentale che non esce dai propri limiti autoimposti, anziché aprirsi con modestia e semplicità al sapere, al cambiamento, a nuove consapevolezze, in quel processo di conversione in cui si manifesta, durante la travagliata esistenza di quaggiù, il prodigio della scoperta della luce e della rinascita dell’anima e del corpo.
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