Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film
Dio c'è. E' la religione, che non esiste. Cosa vuol dirci questa tragedia con finale surreale scritta dal pastore protestante Kaj Munk e messa in scena con un'austerità spettrale da Dreyer? Semplicemente questo: che la religione allo stato naturale non esiste, è solamente una creazione dell'uomo e non fa che causare litigi, sofferenze, vacui dibattiti e follia. Che poi la follia di Johannes venga premiata è solo l'ennesima dimostrazione della totale, imprevedibile casualità che gestisce gli affari terreni: Dio (ma sarebbe sempre corretto chiamarlo dio, in quanto si tratta di un'entità soggettiva ed interiore individuale, non di un personaggio barbuto che vive nel cielo o di chissà che altre fantasiose speculazioni) c'è, ma se ne frega di noi. E fa anche bene, a dirla tutta, perchè gli uomini sono stolti ed egoisti (Morten che pretende l'erede maschio a tutti i costi, il sarto che non concede la figlia ad un bravo ragazzo per divergenze confessionali), miscredenti come Mikkel (che però si ravvede dopo il 'miracolo' finale) o monomaniacali come Johannes (la cui strenua fede non lo ha certo salvato da una vita di catatonia ed incomprensione); in sostanza gli unici fedeli veri sono, appunto, i pazzi oppure i bambini, come la piccola che rimane la sola a credere nelle farneticazioni di Johannes. Il che è di una misantropia desolante. Due ore di interni cupi, luci basse e musiche quasi azzerate, con dialoghi spogli ed una lentezza nell'azione esasperante, amplificata dal continuo ricorrere al pianosequenza ad oltranza; un'angoscia incommensurabile attraversa Ordet e con quel finale surreale getta nello scompiglio qualsiasi certezza dello spettatore: che sia pessimo o lieto fine, di certo non pare una soluzione consolante (è stato un vero miracolo? E se lo è stato, come farsene una ragione? O forse il vero miracolo è che Morten ed il sarto riescano a riappacificarsi di fronte ad un dolore maiuscolo come quello della morte di Inger e del neonato?). Al ritmo soporifero ed all'algida messa in scena si oppone una pregnanza di riflessioni che lascia inevitabilmente stordito lo spettatore; occorre rassegnarsi ad amare la vita (dio, l'entità, la parola, l'anima, la forza insita in noi) in ogni sua forma e manifestazione, senza preoccuparsi di decifrare, etichettare o addirittura risolvere il mistero ed imporre le proprie conclusioni: il cuore dell'opera sta tutto racchiuso in questo pur banale - se letto superficialmente - concetto, come evidenziato anche dal dialogo della scena di chiusura. 10/10.
Nelle campagne danesi vive l'anziano Morten con i tre figli: Anders, innamorato della figlia del sarto, che però si oppone all'unione a causa delle divergenze religiose con Morten; Johannes, studioso di teologia convintosi di essere la reincarnazione di Cristo e che vaga per il paese predicando; Mikkel, sposato con Inger e padre di due bambine. Inger è incinta del terzo figlio, finalmente maschio come Morten desiderava da tempo; ma il parto si complica ed il piccolo nasce morto, causando anche la morte della madre. Quando giunge a salutare il cadavere, Johanness chiede a Dio la resurrezione della donna, che avviene. Il sarto intanto concede la mano della figlia ad Anders.
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