Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film
E' un lugubre ritratto dell'umanità, quello di Dies irae, che si prende il disturbo di dire così tanto - con così poco, in sostanza - sulla meschinità intrinseca nell'uomo e di insinuare perfino di più, proprio come si insinua il dubbio dell'accusa di stregoneria nel diciassettesimo secolo ove l'azione si svolge. Ma, attenzione, la stregoneria è solamente una scusa, un pretesto per mettere in scena l'ambiguità e l'interesse, l'ingratitudine ed il disgustoso sciacallaggio morale e materiale compiuto dagli uomini su altri uomini: tutte caratteristiche che accompagnano il genere umano dalla notte dei tempi e che si ritrovano in qualsiasi altra epoca della Storia. E' una parabola dolorosa e dolente, che punta il dito contro le bassezze dell'animo umano e non a caso il testo (il film è tratto dal romanzo Anne Pedersdotter di Hans Wiers-Jenssens) sceglie di inquadrare il fulcro della vicenda nella figura di un pastore, ovvero di colui che dovrebbe rappresentare l'autorità divina sulla Terra. Se ogni scorrettezza è lecita, del resto ogni cattiveria (sarebbe eccessivo parlare di 'peccato' in un lavoro che tratta la religione con leale perplessità) ritorna prima o poi al mittente: nel tutti contro tutti che è la vita, in cui i legami famigliari ed affettivi sono semplici formalità, pura facciata, nessuno sarà risparmiato, neppure il presupposto vincitore. Disarmante, rassegnato, colmo di dialoghi profondi e toccanti, con pochi personaggi assortiti con grande maestria fra uomini e donne, anziani e giovani, innocenti (cioè meno colpevoli) e colpevoli. 9/10.
1623. Un pastore protestante danese si è risposato con una ragazza molto più giovane, figlia di una donna che l'uomo scagionò dalle accuse di stregoneria. Ora a casa del pastore si presentano un'anziana tacciata di stregoneria ed il giovane figlio dell'uomo, che si invaghisce della matrigna.
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