Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film
Nella Danimarca del ’600, una vecchia accusata di stregoneria rinfaccia all’inquisitore un terribile scheletro nell’armadio: aver protetto una sua presunta “collega” per sposarne in seconde nozze la bella figlia. Lui non vuole aiutarla e la abbandona alle torture e al rogo, non senza prima averle impedito di lanciare accuse postume. Nasce una passione tra il figlio dell’inquisitore e la giovane matrigna, che per la prima volta in vita sua conosce l’amore: fattasi sempre più ardita, una sera rivela la sua relazione al marito, che ne muore. Nell’ultima scena, di altissima tensione drammatica, la madre dell’inquisitore (una matriarca che ha sempre odiato la nuora, considerandola un corpo estraneo nell’ordine familiare) accusa la donna di aver provocato la morte del marito con arti magiche. Il nipote, preso da scrupoli di coscienza e da rimorsi (per il suo adulterio, per aver velatamente desiderato la morte del padre), si schiera con la nonna. A quel punto la vedova confessa di essere una strega, andando anche lei incontro al rogo. Il film parla di molte cose (gli effetti del fanatismo, la religione come strumento di potere, il senso di colpa, l’amore, la morte) ma non dà mai l’impressione di essere sovraccarico, al contrario: come di norma in Dreyer, la messa in scena è spoglia ed essenziale, la recitazione quasi ieratica. Soprattutto, è un’opera di sublime ambiguità: resta incerto il motivo per cui alla fine la donna si riconosce colpevole (perché disgustata dal comportamento dell’amante e stanca della vita? per subire sulla sua pelle la sorte a cui era scampata la madre? per punirsi del torto fatto al marito? perché è veramente una strega?). In ogni caso, un capolavoro.
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