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Una questione d'onore

Regia di Luigi Zampa vedi scheda film

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La recensione su Una questione d'onore

di Peppe Comune
6 stelle

Ci troviamo nella Barbagia, alle pendici del Supramonte, una terra bellissima dove sembra che il tempo si sia fermato, in cui vige il rispetto sacro di regole ancestrali e dove ogni malefatta esige la sua risposta riparatrice. È qui che vive Efisio Mulas (Ugo Tognazzi), un bracciante agricolo che vive di lavoretti saltuari, soprattutto per conto di don Leandro Sanna (Bernard Blier), il fratello maggiore di una famiglia che ha in corso una faida interminabile con la casata dei Porcu. Efisio Mulas è promesso sposo di Domenicangela Piras (Nicoletta Machiavelli), e intanto che la donna è in prigione, i quattro fratelli di lei vegliano sulla sua buona condotta. Scontata la pena, i due “promessi sposi si uniscono in matrimonio secondo le usanze. Ma non riescono a consumare, perché Efisio è costretto a scappare per sfuggire al carcere a causa di un delitto che non ha commesso. Tornato in Sardegna dopo qualche mese e dopo che è stato assolto in contumacia, Efisio scopre che la moglie aspetta un bambino. In paese tutti lo credono un cornuto ed esigono da lui una punizione esemplare per la moglie fedifraga. Ma l’uomo sa che non è così, che il figlio è senza alcun dubbio il suo, ma se confessasse di aver fatto visita alla moglie durante il periodo della latitanza, rischierebbe di essere accusato dell’omicidio di Egidio Porcu (Franco Fabrizi). Una situazione davvero difficile da risolvere quella in cui si trova Efisio Mulas, che è costretto a scegliere se evitare la galera o conservare l’onore.

 

 

“Una questione d’onore” di Luigi Zampa è un film che si muove sul sottile equilibrio tra la rappresentazione caricaturale di un tipico ritratto d’ambiente e il racconto verosimile di emblematici spaccati di vita. E’ bene subito sottolineare che, se da un lato, il senso del tragico che aleggia lungo tutta la storia è diluito quasi del tutto in una sorta di risata liberatoria, dall’altro lato, quest’aspetto peculiare del film non nega affatto la possibilità che, dalla serie di bozzetti imbastiti da Luigi Zampa, si possano ricavare delle riflessioni (semi)serie sulle condizioni di vita nell’entroterra sardo. A fare da sfondo, non sono solo gli usi e i costumi di una terra ricca di storia e cultura, ma soprattutto il rispetto sacrale di un codice d’onore che regolamenta imperituro lo scorrere della vita nel territorio della Barbagia. In ragione di questo codice, non c’è torto che non possa e non debba essere riparato ; per rispetto di questo codice, in ogni faida veramente degna di questo nome, il numero di morti che ognuna delle famiglie in lotta è  disposto a piangere deve sempre essere pari. Un codice che trova la sua sublimazione nelle pendici del Supramonte, la catena montuosa che offre un riparo sicuro ad ogni esiliato che si oppone istintivamente ad un ordine sociale che non sente appartenergli, ad ogni sardo che ha messo in pratica la sua legge non riconoscendo affatto come propria quella dello Stato cui apparterrebbe.

Mentre stanno osservando dei bambini giocare allegramente, un carabiniere racconta ad un suo collega appena arrivato sull’isola che in Sardegna “fino a sei anni sono bambini, poi diventano sardi”. In un altro dialogo, troviamo Efisio Mulas spiegare la particolarità della sua situazione sentimentale ad un avvocato (un Leopoldo Trieste in una piccola parta pregna di virtù). Dopo averlo ascoltato e avergli detto che la sua posizione legale è molto semplice perché non esiste legge che può costringere qualcuno a sposare controvoglia qualcun altro, l’avvocato precisa che “se come italiano sei in una botte di ferro, come sardo sei in una cassa da morto”. Due dialoghi che giungono l’uno dopo l’altro e che mettono in evidenza il senso profondo del film, che è quello di esprimere con fare grottesco l’alterità di un vasto territorio della Sardegna rispetto al resto del paese, la sua lontananza dal mondo industrializzato, la sua estraneità dal clima contagioso innestato lungo tutta la penisola dal boom economico. Una satira feroce  che rasenta anche l’atteggiamento irrispettoso nei confronti di un territorio che, evidentemente, è anche molto altro, ma che intanto è intenzionato a focalizzare l’attenzione sulla natura “primordiale” di certe usanze che nel corso degli anni sessanta ancora esistevano e resistevano all’interno dell’isola.

In linea con i canoni stilistici della cosiddetta “commedia all’italiana”, “Una questione d’onore” tratta in maniera leggera la condizione antropologica di una terra chiusa in se stessa, orgogliosa del suo ostinato isolazionismo, del perpetuarsi eterno delle sue usanze arcaiche. E se non rappresenta uno degli esiti migliori di quella stagione (per me) aurea del cinema italiano, ha il merito di fornire un ritratto d’ambiente certamente inusuale.

Efisio Mulas è la maschera che riflette su di se tutte le contraddizioni di un sistema sociale che impone il rispetto acritico delle sue regole ancestrali. Imbrigliato nella faida perpetua tra i Sanna e i Porcu, Mulas si trova come rinchiuso in una prigione senza via d’uscita, in una condizione esistenziale dove, piuttosto che far prevalere la verità dei sentimenti e la concretezza dei fatti così come effettivamente sono stati, si vede costretto a dover agire secondo abitudini conclamate se vuole salvare la vita e l’onore. Efisio Mulas è un sempliciotto a cui capitano delle cose che vanno ben oltre la sua volontà, ed è proprio questa sua ingenuità inconsapevole ad insinuarsi come una critica sociale rivolta contro un sistema di cose retrivo ed avvilente, che abbrutisce piuttosto che civilizzare, che guarda sempre indietro piuttosto che procedere in avanti. Un punto di vista solo sfiorato però, che manca di accennare al fatto che questi sono stati per lungo tempo dei territori totalmente dimenticati dal resto del (bel)paese. Ecco, tutto rimane debitamente disinnescato, avvolto in un quadro tragicomico che si fa teatro dell’assurdo.

Rispetto alla tendenza tipica della Commedia all’italiana di oscillare tra il serio e il faceto, di epurare il dramma nella caratterizzazione farsesca del carattere nazionale, in questo film sono portate all’eccesso, sia il tono canzonatorio che aleggia sopra il ritratto d’ambiente, sia il timbro oleografico che caratterizza la tipizzazione dei personaggi. Aspetti questi che sono abbastanza presenti in Luigi Zampa, un ottimo “mestierante” del cinema italiano che tende spesso a sovraccaricare i suoi film di gratuiti inserti folcloristici. Penso a commedie come “L’onorevole Angelina”, “Anni ruggenti” (il mio preferito, una satira intelligente sul fascismo inquadrato dal punto di vista di chi ci aveva creduto nella bontà del regime), “Il vigile”, “Il medico della mutua”, ”Bello, onesto, emigrato Australiano, sposerebbe…”. Oppure a quelli più di impegno civile, come “Processo alla città” (bellissimo film sulla camorra, antesignano nel trattare il legame tra imprenditoria cittadina, politica e criminalità), “Bisturi, la mafia bianca”, “Gente di rispetto”, “Il mostro”. Tutti film a cui sarebbe bastato veramente poco per giungere ad un più consistente valore artistico. E invece sono rimasti dei film più o meno belli o più o meno riusciti, ma quasi sempre godibili, frutto del mestiere autentico di un onesto facitore di cinema. “Una questione d’onore” è appunto un “tipico” prodotto di Luigi Zampa, un film che eccede in macchiettismo ma che si lascia guardare con gaudente attenzione. Perché fa ridere e riflettere allo stesso tempo, perché c’è Leopoldo Trieste nella parte dell’avvocato Mazzullo che da sola vale la visione, perché c’è il grande Ugo Tognazzi, una mia debolezza particolare, uno di quegli attori che sanno innalzarsi sopra tutti e nonostante tutto.         

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