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Incontri a Parigi

Regia di Eric Rohmer vedi scheda film

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La recensione su Incontri a Parigi

di degoffro
8 stelle

Dopo “Reinette e Mirabelle”, Eric Rohmer firma il suo secondo ed ultimo film a episodi. Se però nell’opera del 1987 le due protagoniste erano sempre le due ragazze del titolo in tutti e quattro i frammenti, qui ci sono tre storie distinte e separate in cui si ritrovano comunque tutte le anime del regista. Nel primo episodio c’è la leggerezza sorniona e ironica del miglior Rohmer del ciclo “Commedie e proverbi”. Nel secondo episodio il più classico Rohmer sentimentale con un triangolo amoroso che sembra quasi richiamare gli esordi del regista soprattutto per il ruolo centrale di Parigi (penso per esempio a “La fornaia di Monceau”). Nel terzo infine c’è il Rohmer più colto, intellettuale ed erudito: ancora tre personaggi (ma ruoli invertiti rispetto al precedente, qui infatti ci sono un ragazzo e due ragazze), alle prese con acute riflessioni su arte, ispirazione, creatività, spazio e pittura (Picasso in particolare). Personalmente ho trovato adorabile il primo, simpatico ma leggermente risaputo il secondo, affascinante ed intrigante, a tratti persino sensuale il terzo. Tutti gli episodi, introdotti da due cantastorie in tradizionali abiti popolari francesi, sono contraddistinti dalla difficoltà di comunicazione tra i personaggi, dalla consueta combinazione di caso ed imprevisti e da una molteplicità di possibili interpretazioni, come se Rohmer si fosse divertito, più che altrove, a disseminare false piste, mezze bugie ed ingannevoli verità sia per i suoi protagonisti che per lo spettatore. Il primo racconto, “Appuntamento alle sette”, è quello di più forte matrice teatrale, non a caso i nomi dei personaggi sono tratti da opere di Corneille e Racine. Protagonista è Esther, fidanzata con Horace con cui fa sempre fatica a vedersi a causa dei troppi reciproci impegni. L’amico Félix che per lei ha un debole, le insinua il dubbio che Horace si veda spesso con un’altra ragazza alle sette di sera al caffè di Beaubourg: “Si vede meglio da lontano che da vicino” le dice con sorriso malizioso. Esther lo liquida seccata, sicura come è della fedeltà del suo fidanzato, ma quando si trova con l’amica e compagna di studi Hermione il sospetto la assale, soprattutto alla luce del fatto che Horace ha sempre avuto “il vizietto delle donne”, cioè l’abitudine di frequentare più ragazze insieme. E’ però altrettanto convinta di poterlo cambiare: “Deve scegliere: o me o le altre donne. Gli parlerò a muso duro. Lo metterò di fronte all’evidenza. Gli ricorderò che ci eravamo promessi di non nasconderci niente e che finisce che tutto viene a galla!” dice determinata ad Hermione, la quale però saggiamente la mette in guardia. “E’ del tipo parecchio furbi. Così nasconderà le cose sempre di più. Non è la tattica buona. Fai come fa lui. Rendilo geloso.” Inizialmente perplessa, Esther è però anche consapevole del fatto che “Ogni volta che sono me stessa mi si ritorce contro!” L’occasione di seguire il consiglio dell’amica le viene offerta da un fortuito incontro al mercato con un simpatico ragazzo che la abborda disinvolto. Esther dapprima respinge le sue avances, poi gli dà l’appuntamento alle sette al caffè di Beaubourg. Tornata a casa si accorge che le è stato rubato il portafoglio e subito ritiene colpevole il ragazzo che l’ha avvicinata al mercato. Nel tardo pomeriggio una ragazza, Aricie, le riporta il borsellino. Le due simpatizzano e Esther scopre che anche Aricie ha un appuntamento alle sette al medesimo bar con un ragazzo per il quale non nutre molta fiducia. Giunte al locale, Esther scopre che quel ragazzo è proprio Horace. Esther e Aricie fingono di essere amiche di lunga data, poi Esther si allontana; inseguita da Horace non accetta le sue spiegazioni e se ne va via. Nel frattempo al bar arriva anche il ragazzo che aveva abbordato Esther al mercato. Allora non è lui il ladro del portafoglio? Al di là della pimpante freschezza dei dialoghi (vero marchio di fabbrica del regista) in questo episodio colpiscono i toni scorrevoli, rilassati, brillanti, da vera e propria commedia degli equivoci (mi è venuto in mente per esempio lo splendido finale de “L’amico della mia amica”), con cui Rohmer gestisce gli incontri/scontri tra i suoi personaggi. Alla fine, come negli altri due episodi, ognuno dei protagonisti va per la propria strada, quindi si potrebbe pensare ad un certo pessimismo di fondo che in effetti c’è, qui però mitigato da una levità e da una vivacità di tocco sublimi ed ammirevoli. Il secondo episodio “Le panchine di Parigi”, messo in scena quasi come fosse un diario (gli incontri dei due protagonisti vengono appuntati con data e luogo sulle pagine di un’agenda) ci porta come turisti a conoscere alcuni posti poco conosciuti della capitale francese, seguendo l’itinerario di due giovani che si danno di volta in volta diversi appuntamenti fra fine estate e fine novembre. Con loro visitiamo così il lungo Senna, la Fontaine Médicis al Jardin du Luxembourg, il cimitero Saint Vincent, i parchi di Belleville, de la Villette e Montsouris, les jardins du Trocadéro, Serres d’Auteuil. Ancora una volta al centro un triangolo che coinvolge una donna e due uomini, uno dei quali si intravede (forse) nel finale. Dei due protagonisti principali non conosciamo i nomi, sappiamo solo che lui è insegnante di lettere e che vorrebbe abitare a Parigi ma per ora si accontenta di stare in periferia perché i costi sono decisamente più bassi, mentre lei convive con Benoit. Lei soffre il fatto che Benoit, troppo concentrato sui suoi studi, la trascuri (“Non sembra fare attenzione a me!” dice) ma allo stesso tempo non trova il coraggio di dirgli che non lo ama più e pare non avere interesse ad interrompere d’improvviso il rapporto con lui: “Voglio che avvenga automaticamente. Lo sopporto nella misura in cui mi lascia tranquilla. E’ così assorbito dal suo lavoro che non mi dà disagio stare da lui e dormire vicino a lui. Per ora non ho ragione di mettermi in urto con lui!” Nel frattempo però cerca consolazione in un altro ragazzo con cui si vede, appunto, in diversi parchi e quartieri caratteristici di Parigi, ma mai nel suo appartamento (“Non farti illusioni: non ho affatto intenzione di venirmi a piazzare da te!”), perché “non dobbiamo togliere poesia ai nostri rapporti.” Lui sa della storia di lei con Benoit e la ragazza, in più occasioni, nel mettere a confronto il suo amore per i due uomini gli dice, senza peli sulla lingua: “Ho amato Benoit prima, più di quanto amo te oggi!” Lui, che ha di lei un’immagine idealizzata, reagisce con comprensione limitandosi ad uno speranzoso “Allora occorre tempo!” La ragazza inizialmente con lui è abbastanza distante (“Non mi piace stare scomposta con un ragazzo per strada” si giustifica) ma sta anche molto attenta a non fare con lui le stesse cose che ha fatto con Benoit: “Non voglio che mi veda fare con un altro quello che ho fatto con lui. Non nel medesimo posto. Ecco, ci tengo che lui sappia che ho dell’immaginazione.” E’ infatti convinta che, se per esempio Benoit la vedesse con un altro ragazzo nel quartiere latino, commetterebbe una “doppia infedeltà”. In realtà, come saggiamente le viene fatto notare, “che ti veda qui o altrove lui ne soffrirà altrettanto!” Alla ragazza “piace il non far niente fino ad annoiarmi. E’ una cosa gradevole. Ti arricchisce perfino.” Di fronte alle insistenze di lui, il cui desiderio lo spinge a chiederle di trovarsi nel suo appartamento, replica: “Niente è più delizioso di un bacio bruciante nell’aria ghiacciata”, rivelandogli, con questa dichiarazione, di preferire il freddo di una panchina di un parco in pieno inverno al calore di un comodo divano di casa. La ragazza non sente l’esigenza di prendere una decisione in un senso o nell’altro, perché come lei stessa afferma “Ti dirò una cosa che ti scandalizzerà. Io mi trovo bene nella situazione in cui sono. Tuttavia è quel genere di situazione che in linea teorica mi fa orrore. La solita signora perbene che ha un’amante.” Solo che, aggiunge lui ironicamente “Benoit non è tuo marito e io non sono il tuo amante!” A differenza della Félicie di “Racconto d’inverno” non ha un ideale di uomo rispetto al quale gli altri uomini non reggono il confronto. Per la ragazza di questo episodio i suoi due uomini si completano a vicenda, la bellezza di questo strano rapporto a tre sta proprio nel fatto che con loro vive esperienze diverse: “Vi sopporto perché non faccio mai le stesse cose, né con te né con lui.” Per esempio Benoit non ama coccolarla come il suo “compagno di strada”, per cui in definitiva lei non ha mai, verso Benoit, “l’impressione di tradirlo”. Con il passare dei giorni però la ragazza si rende conto di un fatto: “Sopporto sempre meno di vivere con Benoit e sempre meno di vivere la strada con te.” Approfittando del fatto che Benoit deve partire per un week end propone a lui di trascorre una due giorni da turisti per Parigi alloggiando in un hotel. Si ritrovano alla stazione con tanto di piantine della città, ma proprio nel momento in cui stanno per entrare nell’albergo lei scorge Benoit che vi entra con un’altra ragazza. Scossa sia dalla scoperta sia dal fatto che l’altro suo uomo non capisce la sua sofferenza, tronca il rapporto anche con lui. L’aver rotto con Benoit rende superflua anche quella relazione complementare. Pur gradevole e nel complesso riuscito, questo episodio, nel finale volutamente aperto al dubbio (lei ha visto davvero Benoit entrare in quell’hotel, oppure ha semplicemente finto per trovare l’occasione giusta per liquidare l’altro?), alla lunga risulta ripetitivo e faticoso, troppo perso in chiacchiere superflue che poco o nulla aggiungono all’universo rohmeriano sia per temi che per personaggi (lui è il tipico uomo di Rohmer apatico e un tantino noioso, lei una riedizione della scontrosa Anne de “La moglie dell’aviatore”, il film a cui maggiormente questo episodio si avvicina, con echi della Louise de “Le notti della luna piena”, ma anche della Félicie di “Racconto d’inverno”). In più “Le panchine di Parigi” è penalizzato da un finale che, a mio avviso, è inutilmente cattivo e crudele verso il personaggio maschile. Se la beffarda conclusione de “La moglie dell’aviatore” risultava vincente, in questo caso il fatto che lui, pur accettando consapevole di convivere con il “fantasma” dell’altro, venga abbandonato così su due piedi da lei, certo delusa per il fatto che non condivide la sua sofferenza per essere stata ingannata e tradita, ma anche, con più probabilità, stanca di quel rapporto, mi sembra forzato, frettoloso e un po’ irritante. Resta la magia di scorci inediti di Parigi, valorizzati nella loro bellezza autunnale. Il terzo episodio “Madre e figlio 1907” ha infine per protagonista un pittore che riceve nel suo studio la visita di una affascinante ragazza svedese che studia decorazione (“Mi limito a fare disegni, ma non la pittura” dice di sé), amica di un’amica. La ragazza vorrebbe visitare il Museo di Picasso, vicino allo studio del pittore, e nell’attesa osserva i quadri del ragazzo evidenziandone la tristezza. Una volta accompagnata al museo, il pittore si allontana con la scusa che è nel pieno dell’ispirazione, giustificandosi anche con la considerazione che “si deve parlare di pittura dopo che l’hai vista, non mentre la stai vedendo”. Sulla strada del ritorno però incrocia una ragazza da cui rimane particolarmente colpito e la segue fino al museo. La sconosciuta si ferma davanti al quadro “Madre e figlio 1907” e prende appunti. Il pittore si giustifica con la bionda svedese dicendo che voleva vedere solo quel quadro che commenta ad alta voce. Nell’osservare altri dipinti di Picasso emerge ancora di più la differenza delle loro posizioni. Quando vede la sconosciuta incrociata per strada uscire dal museo, il pittore saluta frettolosamente la svedese dandole appuntamento alla sera alle otto al bar “La coupole” e raggiunge la giovane donna. La ragazza non sembra infastidita dal suo corteggiamento anche se rivela di essere fresca sposa e di dover raggiungere a Ginevra il marito, editore d’arte. Dice infatti: “Sono interessata a un solo uomo, e a quelli che stuzzicano la mia curiosità!”. Accetta comunque l’invito del pittore di vedere i suoi dipinti. La ragazza apprezza i suoi lavori, ascolta le sue riflessioni sul particolare modo di lavorare (“Davanti ad un paesaggio mi trasformo in una macchina fotografica!”), si diverte nel provocarlo a proposito del suo rapporto con la ragazza svedese nei cui confronti, a suo giudizio, dovrebbe avere un atteggiamento più corretto. In realtà il pittore le confessa che ormai ha deciso di dedicarsi solo alle ragazze che gli piacciono in tutto, come lei, mentre con la svedese finirebbe solo per parlare di banalità. La giovane ginevrina lo saluta ma il pittore sulla porta di casa le chiede un bacio. Splendida la replica di lei: “Tu che non ami le situazioni banali, cosa aggiungerebbe questo?”e poi se ne va. Alla sera il pittore si reca al bar per l’appuntamento con la svedese ma la ragazza non si presenta. Tornato a casa riprende a dipingere e aggiunge un personaggio femminile al suo quadro commentando: “In fin dei conti non l’ho persa la mia giornata!” Il protagonista di questo terzo episodio, ancora segnato da una verità apparente (la ragazza ginevrina è davvero sposata?), si ricollega, in tutta evidenza, ai personaggi maschili dei racconti morali. Un tantino presuntuoso, narcisista, sicuro di sè e supponente, certo colto, al pari dei protagonisti de “La fornaia di Monceau” e “La carriera di Suzanne” non si fa scrupolo a scaricare una ragazza per seguirne un’altra che maggiormente stuzzica i suoi interessi. Rimarrà scornato da entrambe ma la lezione probabilmente gli servirà. Più che i discorsi “alti”, mai comunque prevaricanti, anzi in alcune situazioni felicemente funzionali allo scopo del protagonista (penso alle sue riflessioni sul quadro di Picasso per far colpo sulla ginevrina), questo episodio si ricorda per i gustosi giochi di seduzione tra i personaggi, raramente così belli in Rohmer, per la sottile e misteriosa ambiguità delle situazioni, per la spensierata e naturale comicità della prima parte con le ripetute diversità tra il pittore e la svedese (ciò che piace a lui dei suoi quadri, delle tele di Picasso o di Parigi non piace a lei), messe puntualmente ed ironicamente in risalto dal regista, per la raffinata, sfuggente e stuzzicante scaltrezza della ginevrina, abilissima, come sempre in Rohmer, a tenere testa al pittore dongiovanni, per la delicata e fine complicità erotica tra il pittore e la ginevrina, nonostante la castità del contesto (un altro dei grandi e magici “misteri” di Rohmer è come faccia a creare atmosfere così intriganti e cariche di desiderio, pur senza, di fatto, mostrare nulla), per il finale delizioso e sagace. Scrive, a questo proposito, Giancarlo Zappoli sul Castoro dedicato al regista: “Il seduttore è stato sedotto e, al contempo, non è accaduto nulla. Gli resta l’autoconsolazione di non aver perduto il proprio tempo, ma chi è veramente la figura di donna che è entrata nel quadro? Picasso, grande e cinico seduttore, probabilmente lo sapeva. Questo pittore piccolo piccolo sicuramente no.” Girato in 16 mm, con carrelli su sedie a rotelle o su Citroen 2CV spinte a mano, interpretato da attori al debutto in quanto allievi di un corso di cinema.

Voto: 7

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