Regia di George Waggner vedi scheda film
Le leggende folcloristiche sulle barriere che dividono e uniscono i tratti di esseri umani, dall’aspetto mutevole, al mondo animale, risalgono all’antichità. Persino nell’epoca vittoriana dei fenomeni da baraccone dalle sembianze particolarmente villose venivano mostrati agli astanti come metamero di congiungimento tra evoluzione e il corrispettivo trascorso bestiale. In seguito al successo di “Frankenstein”, Hollywood (consapevole dei buoni risultati commerciali connessi ai brumosi racconti estratti dalla letteratura ottocentesca) si cimentò su nuovi progetti, i quali sfruttavano gli stessi concept basati sulle mitologie delle suddette creature. La sceneggiatura di “The Wolf Man” venne stilata nel 1931 dal francese devoto all’espressionismo Robert Florey, quando la Universal era intenta a servirsi della star Boris Karloff. L’ambientazione, focalizzata nelle Alpi bavaresi, si inquadrava su un ragazzo, “sottratto” e cresciuto da canidi, che, dopo aver perso la famiglia divorata, diventava un lupo mannaro. Le tematiche abbastanza urtanti per la Chiesa Cattolica, però, fecero slittare il lavoro al 1941. Il truccatore scelto per dare forma al mostro fu Jack Pierce, noto demiurgo dell’estetica raccapricciante dei morti viventi più famosi dello studio californiano. Il figlio d’arte, dalla corporatura imponente, Lon Chaney Jr., fino ad allora ingaggiato in qualità di pallido stuntman, prese invece il ruolo della figura che avrebbe completato la scuderia degli spauracchi classici: Larry Talbot alias “Wolf Man”... Chaney dovette piegarsi alle necessità del modus operandi di Pierce e non fu di certo semplice adeguarsi ad un artista così fuori dagli schemi. Pierce infatti non era propenso a realizzare il make-up con le protesi di gomma, preferendogli del materiale in lattice che avrebbe lasciato una libertà totale nei movimenti facciali, nonché un’espressività piuttosto sinistra, avvalorata dall'allure scafata di Chaney. A questo vezzoso gimmick vi aggiunse pure dei peli di yak stirati sul volto e pareggiati sui vari solchi con un ferro caldo. L’espediente si rivelò brillante, ed era talmente scomodo che Chaney, in alcune foto di repertorio del dietro le quinte, sembrava voler scagliare un cazzotto al povero Pierce durante l’ostica manipolazione. Purtroppo questo irredimibile attaccamento alla tradizionalità, che portava via tempo e denaro, fece presto fustigare la presenza di Pierce dalla major. La sua influenza, in ogni caso, restò un punto di riferimento indelebile... Ritornando all’integrante narrativo, il soggetto venne rielaborato dallo scrittore ebreo Curt Siodmak, il quale utilizzò il simbolo di persecuzione della stella a cinque sommità per marchiare i condannati, accentuandone i larvati sottotesti politici con il celebre componimento evocativo dei segmenti iniziali: “Even a man who is pure of heart and says his prayers by night may become a wolf when the wolfbane blooms and the autumn moon is bright”… La mèsse di riferimenti religiosi ed accenni atavici metteva in luce un'affascinante background che mescolava abilmente elementi della cultura popolare di sfaccettate località europee con i topoi abituali dell'horror, rimanendo comunque vago nel conteso storico, seppur sordidamente tangibile nella duttilità dei riottosi, oscuri personaggi che vi dimorano; alcuni criticarono il legame attiguo alla feuilleton fra Chaney e la bella Evelyn Ankers (Gwen Conliffe) ma, per fortuna, non si pervenne al patetismo. D’altronde i caratteristi scelti per il cast erano di prim’ordine (Claude Rains, Warren William, Ralph Bellamy, Maria Ouspenskaya, Patric Knowles, Béla Lugosi), capaci quindi di rendere caliginosi, nelle taglienti sfumature psicologiche, i conturbanti secondari. Solerte ed acuto nell’esecuzione anche lo sferzante tritono musicale che fa da leitmotive alle metamorfosi della belva... Paragonando il film a “Werewolf in London” (1935), il lungometraggio di Waggner, sebbene leggermente inferiore negli effetti speciali, risulta più intenso nel pathos e maggiormente curato nei dettagli cosmetici, ragion per cui viene ancora considerato il film paradigma sulla licantropia.
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