Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
La ricerca di uno stile, la coerenza di uno sguardo che segue e pedina i protagonisti, in un tripudio di naturalità mai forzata. Questo è Ospiti, seconda prova di Matteo Garrone. Più riuscito del successivo Estate romana (in cui appariva invece una certa forzosa allegria, una costruzione dei movimenti e delle parole troppo studiata) il film anticipa le tematiche che successivamente il regista porterà alle vette del cinema con la maiuscola: le difficoltà della integrazione sociale e linguistica, la lotta per la sopravvivenza, l’amicizia, il dramma che può annidarsi nelle piccole cose e non infrequentemente tradursi in farsa.
C’è un primo dato che balza agli occhi: la lezione di questo Garrone è stata ampiamente assimilata dal suo aiuto regista (qui anche attore) Gianni Di Gregorio. Mettendo a confronto Ospiti con Pranzo di Ferragosto è possibile notare, con le dovute differenze anche di epoca storica, lo stesso tentativo di invisibilità del deus ex machina, la leggerezza che domina incontrollata ma sempre sul punto di farsi sulfurea, la telecamera che registra vite prive di interesse, compresse in ambienti chiusi (in questi casi Roma, metonimico Colosseo che cinge di sé e dei propri ritmi gli abitanti e gli ospiti – ospiti di una città ovvero, come in Di Gregorio, di una casa - ), i dialoghi snocciolati senza paradigmi da letteratura sceneggiata (e in questo sta anche la differenza tra il primo Garrone e il piccolo Sorrentino, già più padrone di un linguaggio costruito e piegato a visioni di respiro ampio) e semplicemente buttati lì, a seguire un viso, una passeggiata, un confronto tra “sordi”. La parola semplice e leggera che diventa rapida occhiata morale sulle cose.
Nelle giornate da parabola noiosa dei cugini albanesi e nell’incontro con gli esponenti di una Roma abituata al ponentino ed ai ritmi lenti, ma interiormente affannosi, sta il tentativo di Garrone di approdare alle sponde della purezza. La camera a mano che segue i passi extraurbani e la ricerca di uno spazio abitativo conforme alle non altissime aspettative si fa espressione di poetica mai sublime ma nemmeno troppo raffazzonata. Lo spazio scenico viene di volta in volta occupato da tic e spaesamenti (la balbuzie del fotografo gentile, il triste quotidiano del pensionato sardo con moglie non compos sui) che vanno a bilanciare il non allegro destino, per censo e nascita, degli extracomunitari volenterosi. Il cuore grande di Roma, le braccia tentacolari della metropoli che sanno stritolare ma anche accogliere, il crescere lento ma esponenziale dei valori della convivenza. Garrone soffoca il suo sguardo angoscioso per lasciare in superficie soltanto le scorie velenose della tristezza: non ancora imbalsamatori né malati di reality show, questi essere umani costretti a vivere partecipano allo spettatore la bellezza della tenacia e la languida forza della non arrendevolezza. Piccoli quadri, mai presuntuosi, mai declamatori: a volte il deficit di linguaggio pare non voluto e dunque non commendevole ma l’esito generale è acerbamente di classe. Quella che in Garrone crescerà, e tanto.
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