Regia di Maurice Pialat vedi scheda film
RETROSPETTIVA MAURICE PIALAT – CINEMATHEQUE DE NICE
Penultimo film di Maurice Pialat, il celebre e premiato regista francese celebrato e ricordato durante tutto il mese di gennaio presso la Cinémathèque della maggiore città sulla Costa Azzurra.
Un Pialat insolito questo del biopic sul grande pittore post-impressionista olandese, morto nemmeno quarantenne in seguito ad un tentativo suicida nel 1890.
Il film, nelle sue oltre due ore e mezza, ci racconta l'ultimo bimestre di vita dell'artista, quando l'uomo, minato nel fisico ma soprattutto nello spirito, dopo tanto viaggiare per l'Europa, dopo le innumerevoli esperienze di vita, gli abbagli religiosi, l'influenza della pittura impressionista francese, fu convinto a raggiungere il paese agricolo di Auvers sur l'Oise, per essere seguito da un dottore sessantenne suo appassionato ammiratore, Gachet, dove venne sottoposto a cure blande ma ad una rigorosa osservazione, corteggiato e vezzeggiato da tutta la comunità come un bambino prezioso nel tentativo, mai probabilmente mosso a soli squisiti fini umanitari, di far riprendere nel corpo e nello spirito una personalità soffocata dal proprio ego straripante e dalle incertezze di una mente sempre tesa a definire la realtà cercando di interpretarla nella complessità multiforme dei suoi colori e delle sue variegate asimmetriche sfaccettature.
Pialat - che si sofferma certo, ma senza tuttavia divenirne schiavo, sulle crisi dell'artista, sulla sua dipendenza dall'assenzio, sulla sua furia creativa senza freni, sulla sua attrazione per le donne che lo circondano - immagina anche una storia d'amore contrastata tra il pittore trentasettenne e la giovanissima figlia del medico, ma anche i rapporti ripresi e contrastati tra il fratello Theo e la di lui moglie, che nutrì per il cognato un affetto evidente e manifesto, chissà se spontaneo o almeno in parte anche calcolatore.
Il regista francese trova in Jacques Dutronc - ottimo, e nella sua recitazione pacata, nell'espressione dimessa grazie anche all'occhio ceruleo accattivante ma pacifico, la possibilità di esprimere le discordanze e le contraddizioni di una persona a volte docile e sottomessa, ma contraddistinta anche da scatti imprevedibili e raptus bizzarri e talvolta pericolosi o letali - un Vincent Van Gogh più sottotono e intimista rispetto a quello istrionico e ferino reso, pur sempre con abilità, dalla trasposizione hollywoodiana di Vincente Minnelli in “Brama di vivere” del 1956 con Kirk Douglas; ed esalta la rappresentazione quasi disincantata, almeno apparentemente, della vita di campagna, con le sue feste, i suoi balli sfrenati, le bellezze femminili che trovano nella rappresentazione di corpi femminili allegri e scherzosi, discinti ed accattivanti, motivo di rasserenamento, ma anche di eccitazione e dunque tormento da parte di una mente vulnerabile e combattuta, consapevole della propria riconosciuta grandezza d'artista, ma anche del calcolo fazioso e per nulla disinteressato di coloro che gli sono vicini, troppo spesso impegnati a tramare sulla commerciabilità delle sue produzioni.
Van Gogh, in Concorso al 44 Festival di Cannes, e a suo tempo accolto in modo discordante dalla critica, è un biopic anomalo, soprattutto nel contesto della complessiva produzione cinematografica dell'autore, che per l'occasione e con una certa originalità rifugge i colori caldi, accattivanti propri delle tele del maestro per riproporci gli ambienti certo bucolici, ma realisticamente rigorosi propri delle ultimissime produzioni, con la luce naturale quasi severa di un mondo che ha bisogno di essere trasfigurato dalla rappresentazione pittorica calda e vivace dell'artista, per potere realmente appassionare.
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