Regia di Todd Solondz vedi scheda film
Joy Jordan (Jane Adams) è una ragazza fragile e sensibile, si è appena lasciata con Andy (Jon Lovitz) e lavora come centralinista in un call center. Si diletta a scrivere canzoni con la speranza che gli diano successo e sogna l’amore che potrà cambiargli la vita. Crede di averlo trovato nell'incontro con Vlad (Jared Harris), un tassista di origine russa che ha conosciuto alla scuola per immigrati. Helen Jordan (Lara Flynn Boyle) è una scrittrice annoiata dal suo stesso successo. Fa sesso senza più troppi stimoli e finisce per accettare le avance di un erotomane che le fa telefonate oscene. Questo erotomane è il suo vicino di casa, Allen (Philip Seymour Hoffman), un uomo con evidenti problemi relazionali. Vive da solo e si masturba di continuo guardando riviste porno e facendo telefonate oscene a donne che neanche conosce. Trish Jordan (Cynthia Stevenson) è soddisfatta della sua famiglia, ha tre bellissimi figli e un marito psichiatra che non le fa mancare niente. Poco importa che tra loro il sesso sia ormai diventato un fatto trascurabile, perché Trish non sa che il marito, il dottor Bill Maplewood (Dylan Baker), più che da lei, è eccitato dagli amici di scuola del piccolo Billy (Rufus Read), il quale, a sua volta, è ossessionato dal fatto che lui, rispetto ai suoi coetanei della scuola media, non riesce ancora a “venire”. Lenny Jordan (Ben Gazzara) e Mona (Louise Lasser) sono i genitori di Joy, Helen e Trish. I due decidono di separarsi dopo più di quarant’anni di matrimonio, è Lenny a prendere questa decisione, e non perché si sia innamorato di qualcun’altra. Lui, ormai, per il sesso non prova più niente, come Kristina (Camryn Manheim), una donna grassa che abita nello stesso palazzo di Helen e Allen. Lei odia il sesso, ed è per questo che sbriga a modo suo le avance insistite di Pedro (Josè Rabelo), il portiere del palazzo.
“Happiness” di Todd Solondz è una galleria umana di sconfortante tristezza, presentata come una cantata dolente rivolta verso una felicità per sempre agognata ma mai raggiunta. Il tono che caratterizza il film è di quelli che oscillano continuamente tra il serio e il faceto, tra la divertita rappresentazione di un’accertata dismissione dei sentimenti e la cruda esposizione dei suoi effetti più disturbanti. É percorso da un clima di sottile leggerezza che non manca di virare verso situazioni al limite del grottesco (la sequenza che apre il film, dove Joy ha appena comunicato ad Andy di volerlo lasciare e l’uomo le dice con tono solenne che, “fino al giorno che tirerai le cuoia, tu e non io, merda sarai e merda resterai”, è quanto mai emblematica in tal senso), ma la sostanza che lo permea nel profondo è come una pioggia acida che corrode dalle fondamenta le sicurezze più consolidate della middle- class statunitense, tesa a smascherar segreti inconfessati e far vedere più chiaro a chi ha intenzione di andare oltre le facili apparenze. É nel chiuso delle loro stanze che i personaggi tratteggiati da Solondz mettono a nudo tutte le loro debolezze, che mostrano tutta la verità sulle loro reali intenzioni sentimentali. L’autore americano si comporta quasi come se li stesse spiando dal buco della serratura, come se volesse catturare i tratti più intimi delle rispettive personalità, un intimità che poi mostra di avere delle implicazioni sociali che vanno ben oltre l’ambito domestico in cui principalmente si evidenzia. Infatti, Solondz porta la caratterizzazione dei personaggi a un livello tale di esasperazione emotiva, che più reale dei personaggi stessi diventano le frustrazioni di fondo che ne permeano le personalità. Frustrazioni che vanno ricercate in un rapporto non soddisfatto con il milieu urbano circostante, frutto del totem di una onorabilità sociale che va ricercata, conservata e perseguita in pubblico, che contrasta in maniera evidente con le private e più intime pulsioni sessuali. Emblematica e centrale, a mio avviso, è la figura dell’adolescente Billy con la sua ossessione di non riuscire ancora ad eiaculare, che sembra già portare addosso il fardello insopprimibile di tutte le insoddisfazioni esistenziali degli adulti, fardello che assomma, in un unico insieme, aspettative rimaste inevase, desideri irrealizzati, gioie inappagate e, soprattutto, un idea dell’essere maschio che la morale corrente vuole che venga perseguita in nome e per conto di una virilità da dover esibire ad ogni costo. Estremo e coraggioso è il dialogo in cui il dottor Bill Maplewood spiega al figlio i tratti salienti della sua pedofilia, una sequenza di imbarazzante bellezza che, proprio perché è inserita all’interno di un contesto dove a farla da padrona è appunto l’incipiente dismissione dei sentimenti e dove lo sguardo è già stato sottratto dall’abusata abitudine di fornirgli immagini fintamente consolatorie, piuttosto che apparire gratuitamente forzata, si delinea come stilisticamente ineccepibile. “Happimnes” nel suo insieme, non solo la sequenza indicata, è come un bisturi ben affilato che squarcia con inaudita crudeltà quel velo d’ipocrisia che avvolge e protegge il volto rassicurante della società del benessere. Grande film.
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