Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Forte di una sceneggiatura spontanea, germogliata in soli quattro giorni, di un’équipe adattata al minimo necessario e di attori senza alcun precedente rodaggio cinematografico sommariamente derivati dai palchi di un teatro (con l’anomalia di Anne Louise Hassing – la bionda Susanne – e, in due parti secondarie, Paprika Steen ed Erik Wedersoe), la storia pone il suo perno iniziale sul personaggio di una donna.
Il suo nome è Karen, ed è l’ultima a entrare in un gruppo di persone sane a cui piace fare gli idioti e destabilizzare la vita e i modi di quelli che ben pensano. Sono terribilmente buffi quanto cinici e irresponsabili; può darsi che il loro rumore sia un po’ fastidioso ma quando ci si abitua si corre il rischio di rimanerne affascinati e attratti. E Karen sembra abbandonarsi a questo folle richiamo. E’ tutto un gioco, una prova di breve durata per divertirsi spensieratamente o c’è la volontà di dimostrare qualcosa a se’ stessi e agli altri? E’ possibile continuare a fare gli idioti anche all’interno del gruppo senza avere il sospetto di autocompiacimenti comportamentali con la scusa di cercare la parte stupida di se’?
Vacanzieri perdigiorno, si difendono (o si nascondono) da una comunità tradizionalista e benestante creando un proprio microcosmo all’interno del quale non esistono delle regole vere e proprie, dove tutto è votato all’improvvisazione e a una consapevole provvisorietà.
Nella ruota mulinante della vita ci imbattiamo spesso in veri emarginati, persone un po’ stupidelle o tragicamente beote, frange della società. Essere (o, come nel caso del film, apparire come) subnormali permette di oltrepassare gli sbarramenti delle consuetudini sociali, le prassi volte a un ossequioso contegno, le gentilezze formali, e concede all’infante capriccioso e instabile che ognuno ha dentro se’ di manifestarsi.
Spesso queste persone vengono compatite, come nel ristorante di lusso dove il cameriere non può servire, per una volta, gamberetti o salmone e si imbarazza di fronte a una richiesta di insalata accompagnata da un semplice bicchier d’acqua. In questo caso l’insolita e scomoda presenza dei finti ritardati è un’onda d’urto che porta via letteralmente il pane di bocca ai rigidi borghesi, tipici frequentatori di certi sfarzosi locali.
L’analisi e il confronto con la parte moderata e avida proposti dalla pellicola continuano con una visita guidata degli “idioti” alla “Rockwool” di Danimarca (una ditta che ha sedi in tutto il mondo), produttrice di lana di roccia: uno dei prodotti più tossici con i quali si possa avere a che fare, all’epoca del film fortemente sospettata di essere una sostanza cancerogena. E’ un materiale che esiste dappertutto, isola termicamente e acusticamente le nostre abitazioni, è sopra le nostre teste e nemmeno lo sappiamo. L’addetto accompagnatore della multinazionale non perderà troppo tempo a spiegare il funzionamento della ditta a dei disadattati sociali, la sirena del profitto delle società ricche e opulente lo ricondurrà subito a un comportamento rigoroso.
Il finto atteggiamento stolto del gruppo di amici ha un impatto devastante anche contro ricchi possidenti che hanno trascorso la loro vita a custodire gelosamente le loro abitazioni, passando la cera sui pavimenti ogni giorno per poterci poi camminare con le suole delle scarpe protette da un velo. Gente non abituata a “sporcarsi” nemmeno con una superficie pulita. Preoccupati di non confondere le zone residenziali con quelle per minorati mentali, si dimostrano indulgenti con gli handicappati fino a che si tratta di vederli raccontati nei documentari e tollerati in famiglia solo se cugini di terzo (meglio se quarto) grado.
Il montaggio delle sequenze ballonzolanti e quasi soggettive, fortemente invadenti e accusatorie di una tipica classe biecamente conformista, è qualcosa di straordinario tanto è puntualmente teso a rompere gli schemi e i tempi di racconto in modo lucido e rigoroso. Visto che le regole del Dogma avevano ostruito qualsiasi possibilità di intervento sul sonoro in fase di postproduzione, Lars von Trier non trascorrerà più tempi sconfinati nei laboratori a cambiare le gamme dei toni di colore o a ingegnarsi sull’efficacia della luminosità o del parlato. Pensa, piuttosto, ad adoperarsi con gli sguardi più propriamente registici: lo spostarsi verso il cielo della mdp non appena un attore accenna col suo volto a guardare verso l’alto, un uso della zumata molto assiduo e spontaneo.
Spiega agli attori che sarebbe necessario lasciare da parte le pretese di professionismo: cosa che conquista il suo massimo risalto nelle conversazioni in stile intervista alternate alle scene del film. Inizialmente contemplate nello script ma non inquadrate in circostanze e tempi precisi, attribuiscono la massima veridicità all’idea di fare gli idioti. La quotidianità con la quale i personaggi cercano di chiarire la loro ambizione di difformità ideologica e comportamentale abbatte l’ostacolo che divide la realtà dalla finzione tanto da farci chiedere se ciò a cui abbiamo assistito sia stato un esperimento premeditato o una vera messa in scena.
Non appena von Trier si accorge che in alcune sequenze sarebbe servito un minimo di commento musicale e volendo rimanere fedele alle regole del Dogma, le quali prevedono l’uso simultaneo del parlato con una qualsivoglia orchestrazione, decide di utilizzare uno strumentista che suoni l’armonica contemporaneamente ai dialoghi degli attori. Viene seguita una direttiva che favorisce le scene con gli effetti acustici e i fonemi migliori, sia pure a svantaggio della rappresentazione visiva spesso sgranata e fuori fuoco. Una messa in scena con aspri sbalzi di montaggio dove vengono mostrate apertamente le telecamere e i loro operatori così come i microfoni sospesi a mezz’aria.
Come si può facilmente intuire da questo prologo, il regista danese rischia una Waterloo a ogni passaggio, a ogni singola scena, e ciascun dialogo arrabbiato e collerico sembra messo lì apposta per imporre attacchi gratuiti rivolti unicamente a far parlare di se’. Il tutto potrebbe apparire come un compito freddo e calcolato, mentre “Idioti” è in realtà un lavoro alquanto temerario, che a tutti i costi porta fino in fondo le sue premesse, smascherando il lato represso ed equilibrato che da sempre ha tormentato il regista. Egli rimedia grazie alla sua lucidità ed enorme intelligenza e stempera le quasi certe irritazioni da parte del pubblico grazie all’utilizzo di toni beffardi e canzonatori.
I film di von Trier in genere infastidiscono, portano i fruitori a bisticciare obbligandoli a farsi un’opinione, a prendere una posizione. La sua sbeccata, intenzionale, caparbia divergenza di visione modifica i contenuti e la sua penetrante autoironia riconcilia col suo pensiero meritando rispetto. Il regista danese si mette sempre in gioco, senza scendere a molti compromessi: ha la massima audacia nell’esternare anche idee antipatiche e infelici come se lasciasse la possibilità a una marea di pensieri di sovrastare e affogare la sua stessa figura.
Sembra un bambino dell’asilo che, nella disputa recondita tra la sua fanciullezza e il suo egocentrismo, gioca spensieratamente con quello che ha a disposizione e cerca la sperimentazione attraverso un’esamina diretta del vissuto: ecco come nasce la messa in scena della stupidità, di una fisicità cadenzata da atteggiamenti inconsci e spastici, di esseri umani che si sporcano con la saliva e che scatarrano (insopportabile ribellione) il cibo mentre sono a tavola.
Il doppiaggio piattissimo e monocorde crea un ulteriore distacco tra chi assiste al film e i loro personaggi, già difficili a digerirsi di per se’. Von Trier mette in evidenza questo divario senza nessuna protezione e ciò contribuisce a delineare di lui un’immagine poco esemplare, bersaglio estremamente ghiotto e facile da colpire. La maturazione dei protagonisti avanza gradualmente dato che le scene di “Idioti” procedono secondo la linearità cronologica della sceneggiatura. Sembrerebbe questa un’idea per venire incontro agli attori, un volergli riservare il numero maggiore possibile di occasioni propedeutiche sui luoghi delle riprese, concedendosi il tempo di indagare nelle parti più nascoste delle loro abitudini, spingendoli a esporsi e confidarsi, tenendogli compagnia con lunghe chiacchierate. E’ questa relazione collaborativa emergente la traccia più visibile del cammino registico di von Trier.
La scena orgiastica, tanto vituperata e discussa, è ai limiti della sopportazione ed è rappresentata senza mezze misure. Bisogna avere l’arditezza di mostrare tutto (in tv, purtroppo, non viene trasmessa integralmente), anche le vicende più odiose. E’ chiaramente percepibile il disagio degli attori anche solo nello scambiarsi gesti affettuosi: le performance recitative sono accentuate nel disperato tentativo di superare l’imbarazzo aiutati dalla collaborazione di interpreti abituati a frequentare i set dei cinema hard. In questi frangenti vengono diretti con una tranquilla risolutezza, ponendo l’accento sul fatto che le sequenze non hanno alcuna presunzione di serietà.
La figura che emerge da questa discettazione sembra essere quella di un regista-“rabbonitore” fuori quanto tormentato dentro, pronto a urlare al mondo la propria difformità, la propria scomposta dissonanza. Un regista incline a qualsiasi eventualità per raggiungere, ed esprimere agli spettatori, quello che qualifica come il respiro di veridicità, il prevalere della realtà rispetto a una cronaca semplificata.
“Per niente facili uomini così poco allineati, li puoi chiamare ai numeri di ieri se nella notte non li avranno cambiati”. I. Fossati, “La musica che gira intorno”.
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