Regia di Todd Haynes vedi scheda film
“L’uomo non è se stesso quando parla in prima persona. Mettetegli una maschera e vi dirà la verità”.
[Jonathan Rhys Meyers]
Didascalia d’apertura:
“Anche se il film che state per vedere è un’invenzione, dovrebbe essere proiettato al massimo del volume”.
Prologo, voce off: “Le storie sono quel che resta degli imperi, come le antiche rovine. Tutto ciò che si è dimenticato rimane negli oscuri sogni del passato e minaccia costantemente di riemergere”. Un’astronave sui cieli di Dublino nel 1854; una culla con un neonato davanti alla porta di casa Wilde; lo stesso bambino, Oscar, che a scuola, pochi anni dopo, dimostrerà al suo insegnante di aver già le idee chiare sul proprio futuro: “Io voglio diventare un idolo pop”. E, oltre cento anni dopo, il suo seme fiorisce: “Gli adulti dicono sempre che l’infanzia è il periodo più felice della vita, ma, per quanto poteva ricordare, Jack Fairy era di tutt’altra opinione. Finchè, un misterioso giorno, Jack scoprì che da qualche parte esistevano altre persone esattamente come lui, prescelti come portatori di un grande dono. E un giorno questo grande schifo di mondo sarebbe stato ai loro piedi” [poi partono i titoli di testa e le note travolgenti di Needle in the Camel’s Eye di Brian Eno].
Londra, prima metà dei seventies, l’apoteosi del glam rock, lustrini e paillettes sulla rivoluzione. E un concerto al Lyceum Theatre: “Stasera le strade di Londra risplendono di lustrini e di abiti scintillanti. Ragazzi e ragazze, travolti dall’ultima follia del rock, rendono omaggio al loro santo patrono, la popstar Brian Slade e al suo doppio venuto dallo spazio, Maxwell Demon”. Quando lo speaker annuncia al pubblico l’ingresso sul palco dell’artista, urlando il nome di Maxwell Demon e della sua band, i Venus in Furs, non immagina che quella sarà la loro ultima esibizione: Slade (Jonathan Rhys Meyers), infatti, stanco del suo alter ego e senza più stimoli in una carriera all’apice, simula il proprio omicidio durante la serata per abbandonare le scene con un coup de théâtre.
Nel 1984, a New York, Arthur Stuart (Christian Bale), giornalista inglese e, all’epoca, fan del cantante, nel decennale della “scomparsa” viene incaricato dal suo direttore di far luce sull’intera vicenda: “D’improvviso venivo pagato per ricordare tutto ciò che i soldi, il futuro e una vita seria mi avevano portato a dimenticare. E per cosa? Per uno stupido scherzo di dieci anni prima. Improvvisamente ero chiamato a capire e c’era chiaramente qualcosa, qualcosa del passato, che mi impauriva. Ma allora non avevo capito che eri tu”. Ritorna con la memoria a quegli anni, quando la sua vita in Inghilterra “sembrava quella di qualcun altro, la storia di qualcun altro, di chiunque, tranne che la sua” e [sulle note incantate di Avenging Annie di Andy Pratt] i ricordi lo precipitano nella magia di un altro tempo: “C’era una volta una terra sconosciuta, colma di fiori strani e di profumi delicati. Una terra che, a sognarla, dà gioia immensa. Una terra dove tutte le cose sono perfette. E velenose”.
E si ritorna nella Londra del glam rock: “Sembra che i giovani d’oggi abbiano assunto una nuova tendenza rispetto alla cosiddetta liberazione sessuale dei figli dei fiori: i capelli lunghi e le perline dell’amore hanno lasciato spazio al trucco coi lustrini, agli zatteroni e a un gusto tutto nuovo per il glamour, la nostalgia e l’esagerazione pura. E a capeggiare questa scintillante rivolta è nientemeno che il gigante del pop Brian Slade, il cui stile eccessivo ha condizionato tutta una nuova generazione di artisti, da Curt Wild ai Flaming Creatures, a Jack Fairy e a Polly Small”. Sono i giorni dei pomeriggi trascorsi nei negozi di dischi, delle letture obbligatorie del New Musical Express, delle corse a casa con il 33 giri appena comprato avvolto nella carta marrone, del rito del primo ascolto (rievocato in una meravigliosa sequenza con Christian Bale che si prepara all’ascolto del nuovo album di Brian Slade, The Ballad of Maxwell Demon), della musica come strumento-chiave di volta-forza motrice per fermare il mondo e spiccare infiniti voli. Brian Slade, invece, “era” il mondo e, per scoprire ogni suo segreto, Arthur si incontra con Cecil (Michael Feast), il manager che lo lanciò alla ribalta. È lui a raccontargli la giovinezza e i primi passi di Slade [mentre in colonna sonora Gary Glitter canta Do You Want to Touch Me (Oh, Yeah!)]: “Prendendo spunto da Little Richard, gli esibizionisti mods, abbreviazione di modernisti, di Londra furono i primi a mettersi il mascara e la lacca sui capelli, i primi, veri dandy del pop, pronti a qualsiasi imprudenza quando si trattava di un bel vestito. Per Brian i mods erano un'affascinante chiamata alle armi, se non altro a Londra, dove, tre anni dopo, al Sombrero Club di Kensington, lo sentii cantare per la prima volta” [e partono le note di 2HB dei Roxy Music, eseguita dai Venus in Furs con Rhys Meyers doppiato da Thom Yorke] “e così mi presentai. Gli dissi che stavo mettendo su un’agenzia e che ero alla ricerca di nuovi talenti. Lui mi presentò a sua moglie, mi chiese di che segno fossi e prima della fine della settimana avevamo firmato il contratto. Vedi, Brian credeva nel futuro: disprezzava l’ipocrisia della generazione dei figli dei fiori e riteneva che la sua musica parlasse molto più agli orfani e ai reietti. Diceva sempre che la sua rivoluzione sarebbe stata sessuale”. Il pubblico del 1970, però, “cresciuto con i Creedence Clearwater Revival e i Beatles”, non sapeva esattamente che cosa farsene di questo tipo di rivolta, finendo col trascurare Brian Slade: è necessaria una svolta, che giunge puntualmente durante un festival musicale, dove, dopo aver proposto un brano travolto dai fischi e dagli ululati del pubblico [Sebastian, meravigliosa gemma di Steve Harley e dei suoi Cockney Rebel, qui affidata all’interpretazione di Rhys Meyers accompagnato dai Venus in Furs], Slade assiste estasiato all’esibizione infuocata e travolgente della rockstar Curt Wild (Ewan McGregor), leader e fondatore della garage band “più nota all’umanità”, The Wylde Ratttz [ed è T.V. Eye, ovvero Iggy Pop & The Stooges]: “Wild veniva dai parcheggi di case mobili del Michigan, anche se il folklore del rock rivendica origini più primitive. La leggenda vuole che quando Curt aveva 13 anni, fosse scoperto dalla madre nel bagno di famiglia a farsela con il fratello maggiore e prontamente spedito a sottoporsi a 18 mesi di cura con l’elettroshock. I medici garantirono che il trattamento avrebbe fritto la sua parte più ‘delicata’: in realtà servì solo a farlo andare fuori di testa ogni volta che sentiva una chitarra elettrica”. Poi, per Slade, un altro incontro fondamentale, l’agente musicale Jerry Devine (Eddie Izzard) e una nuova hit stratosferica, The Ballad of Maxwell Demon [eseguita dagli Shudder to Think e cantata da Rhys Meyers]: il giorno dopo la sua partecipazione alla trasmissione televisiva Top of The Pops, “tutte le ragazzine di Londra portavano i brillantini sugli occhi”.
Dopo Cecil, Arthur si rivolge all’ex moglie di Slade, Mandy (Toni Collette), che da sette anni non ha più avuto sue notizie. Ricorda il loro primo incontro: “Era la notte dell’ultimo dell’anno del 1969, l’inizio di un nuovo decennio. Ovunque ti giravi, c’era l’idea del futuro: nell’aria c’era la sensazione che tutto fosse possibile”. Durante la festa, in cui Slade conosce anche Jack Fairy (Micko Westmoreland), un’altra stella del pop (“Jack era veramente il primo nel suo genere, l’originale e autentico: tutti hanno preso da Jack. Ma dal momento in cui Brian Slade entrò nelle nostre vite, niente fu più come prima. Era la sua natura”), si scoprono e nasce [sulle note di Ladytron dei Roxy Music, eseguita dai Venus in Furs con Rhys Meyers doppiato da Thom Yorke] la loro turbolenta storia d’amore. Si sposano: “Il tempo, i luoghi, le persone vanno sempre più veloci”, ricorda Mandy [mentre in sottofondo parte la splendida We Are the Boys dei Pulp], “per sopportare questa paranoia dell’evoluzione vengono scelte persone particolari, che, attraverso la loro arte, fanno avanzare più rapidamente il progresso. È stato il periodo più stimolante e speculativo del nostro matrimonio”.
È il 1972, The Ballad of Maxwell Demon domina le classifiche britanniche e, durante una conferenza stampa televisiva, Slade scatena ufficialmente la sua rivoluzione sessuale:
“Brian, perché usi il trucco?”.
“Perché? Perché il rock è una prostituta, quindi deve prostituirsi, va esibito. La musica è la maschera, mentre io, nello chiffon e nel taffettà, beh… afferra il messaggio”.
“I tuoi fan non potrebbero trarre un’impressione sbagliata?”.
“E quale sarebbe questa impressione sbagliata?”.
“Beh, che sei una checca impazzita!”.
“Beh, grazie signore, non mi interessa minimamente. Direi che se le persone ricevono quell’impressione da me, quella che ha definito in modo così eloquente, non sarebbe affatto un’impressione sbagliata. Voglio dire, si sa che la maggior parte della gente è bisessuale”.
“Avevo l’impressione che lei fosse sposato e vivesse con sua moglie a Londra”.
“Io sono sposato! E anche felicemente. Solo che mi piacciono tanto i ragazzi quanto le ragazze e, dato che mia moglie la pensa più o meno come me in materia, direi che siamo riusciti a far funzionare il rapporto finora”.
Lo scandalo suscitato, invece di affossarlo, porterà a Slade ancora più soldi, fama e successo: è lo show business. E una megatournée negli Stati Uniti [e Virginia Plain dei Roxy Music in colonna sonora], durante la quale incontra nuovamente Curt Slade: piomba in un locale [dove Donna Matthews e i Teenage Fanclub eseguono dal vivo l’indiavolata Personality Crisis dei New York Dolls] e lo trova devastato dall’eroina. Gli offre tutto: denaro, il contratto per una collaborazione musicale [Satellite of Love di Lou Reed], soprattutto il suo amore. La carriera di entrambi si rigenera [e sul palco si esibiscono insieme nella devastante Baby’s on Fire di Brian Eno, eseguita dai Venus in Furs con Rhys Meyers], ma la vita privata va in pezzi. La dissoluzione investe tutti, senza distinzioni: dalla love story tra Brian e Curt, a causa di un banale litigio [durante la registrazione in studio di My Unclean, dove Ewan McGregor, accompagnato dai Wylde Ratttz, si esibisce con impressionante somiglianza con Kurt Cobain], al suo matrimonio con Mandy (“Quando tutto si disintegrò, io rimasi in disparte a guardare, proprio come tutti gli altri”), dall’innocenza della giovane costumista Shannon (Emily Woof), innamorata di Brian, alla vita dello stesso Arthur, che proprio in quel periodo lascia la casa dei genitori per trasferirsi da Manchester a Londra (e dove, in cerca di una prima sistemazione, conosce i componenti di una delle nuove band nate in piena rivoluzione glam rock, i Flaming Creatures [interpretati dai Placebo], che il loro leader Malcolm [alias Brian Molko], ha appena lanciato tra le star grazie allo strepitoso successo di 20th Century Boy [storica hit di Marc Bolan e dei suoi T-Rex]).
Le ricerche di Arthur, intanto, proseguono mescolandosi con il flusso inarrestabile dei ricordi: prima ha un’illuminazione e [sulle note immortali di Dead Finks Don’t Talk di Brian Eno] scopre che Slade ha cambiato nome e, dal 1979, si è trasformato nella rockstar americana Tommy Stone. E poi, inevitabilmente, cerca Curt Wilde: “Solo ora, riguardando indietro, vedo come hai tappezzato i miei muri e come sei entrato nella mia vita… a ondate”. E c’è ancora un’astronave nel cielo, stavolta di Londra [mentre Rhys Meyers, accompagnato dai Venus in Furs, esegue Tumbling Down di Steve Harley].
Arthur irrompe a una conferenza stampa, smaschera pubblicamente Tommy Stone rivelandone la reale identità e poi chiude i conti con il passato:
“Eravamo partiti per cambiare il mondo e abbiamo cambiato solo noi stessi”.
“”E che cosa c’è di male, Curt?.
“Niente. A patto di non guardare il mondo”.
Al concerto di addio al glam rock in onore del “defunto” Brian Slade sfilano sul palco del Rainbow Theatre di Londra tutte le stelle di quell’irripetibile stagione musicale: da Curt Wilde [che si esibisce in Gimme Danger di Iggy Pop, eseguita dai Venus in Furs insieme a Ewan McGregor] a Jack Fairy [che nella commozione generale canta 2HB dei Roxy Music, qui interpretata da Pul Kimble con l’accompagnamento dei Venus in Furs].
“Lui la chiamava libertà”, ricorda Arthur, “una libertà che ti puoi concedere. Oppure no”.
Sipario [mentre sui coloratissimi titoli di coda Steve Harley si scatena in Make Me Smile (Come Up and See Me)].
Velvet Goldmine, premiato per il miglior contributo artistico al festival di Cannes, convoglia nel suo coloratissimo corpus le tematiche principali del cinema di Todd Haynes: nelle forme di un esaltante e nostalgico tripudio di fantasia ed estetica deliziosamente kitsch, infatti, il regista californiano miscela suggestivamente ironia, melodramma e sperimentazione visiva per riproporre la sua virulenta e accorata battaglia contro una delle pulsioni più degeneranti della società moderna, ovvero la tendenza dell’uomo a nascondersi dietro i pregiudizi. Videoclip, false interviste e falso materiale di repertorio si fondono con il realismo e la raffinatezza della ricostruzione ambientale e scenografica (curata da Christopher Hobbs, mentre i favolosi costumi sono ideati da Sandy Powell), diventando musical/finzione/(ri)evocazione, una paradossale ed esaltante “mockufiction” in cui trasfigurare gli umori e le magiche alchimie musicali di una corrente complessa e travolgente come il glam rock, fenomeno essenzialmente britannico che Haynes sviscera e manipola senza trascurarne alcun fermento. Sfilano, così, sullo schermo gli alter ego di tutte le grandi star di quell’irripetibile stagione: David Bowie (che, nonostante il film lo omaggi sin dal titolo, rifiutò di concedere le sue canzoni per la colonna sonora), Brian Eno con e senza i Roxy Music, Lou Reed e i Velvet Underground, Iggy Pop & The Stooges, i New York Dolls (rara incursione a stelle e strisce nel fenomeno glam, qui rievocati nell’interpretazione survoltata degli scozzesi Teenage Fanclub), Marc Bolan e i T-Rex, Steve Harley & Cockney Rebel, gli Slade, Andy Pratt, Gary Glitter, oltre a quegli artisti contemporanei che, per affinità estetiche e/o sonore, in quegli anni si sarebbero trovati sicuramente a loro agio (i Placebo, i Pulp, gli Shudder to Think). Sotto l’egida produttiva di Michael Stipe dei R.E.M. Todd Haynes, ancora non soddisfatto, decide anche di formare due supergruppi per eseguire ex novo alcune canzoni della colonna sonora e comporre quelle necessarie a ricreare il sound degli album dell’epoca: nascono, così, i Venus in Furs (formati da Thom Yorke e Jonny Greenwood dei Radiohead, Andy Mackay dei Roxy Music, Bernard Butler degli Suede e Paul Kimble dei Grant Lee Buffalo) e i Wylde Ratttz (ovvero Ron Asheton degli Stooges, Thurston Moore e Steve Shelley dei Sonic Youth – per i quali nel 1990 Haynes girò il videoclip di Disappearer – Mark Arm dei Mudhoney, Mike Watt dei Minutemen e Don Fleming, membro dei Gumball e produttore, tra gli altri, proprio dei Sonic Youth e dei Teenage Fanclub). Il risultato finale, Velvet Goldmine, per qualità della rielaborazione musicale, impetuosità emotiva ed efficacia stilistica della scrittura (magnifico tributo, tra l’altro, all’Orson Welles di Quarto potere), si erge, così, imponente e luccicante, tra i capolavori assoluti di uno tra gli autori più importanti e preziosi degli ultimi decenni.
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