Regia di Pietro Castellitto vedi scheda film
I Pavone sono una famiglia appartenente all'alta borghesia romana, intellettuale e progressista. Pierpaolo (Massimo Popolizio) è un medico chirurgo, ha una relazione con Gaia (Anita caprioli), la bella moglie di Bruno Parise (Dario Cassini), suo miglior amico e collega. La moglie Ludovica (Manuela Mandracchia) è una regista cinematografica, intransigente ed annoiata dalla vita. Federico (Pietro Castellitto) è il loro figlio venticinquenne, con una passione spropositata per Nietzsche inculcatagli dal professor Nicola Fiorillo (Nando Paone). È un ragazzo alquanto originale Federico, con strani propositi “bombaroli”. Abitano a Roma anche i membri della famiglia Vismara, proprietari di un negozio di armi che insieme alla fede fascista coltivano propositi bellicosi. Claudio (Giorgio Montanini) è il capofamiglia, vende armi illegali sottobanco e tiene in piedi un’organizzazione paramilitare di stampo fascista. Sta iniziando alla via delle armi anche Cesare, il figlio dodicenne che già spara come un cecchino. Suo sodale è il fratello Flavio (Antonio Gerardi), i due sono soci in tutto, nel malaffare e nell’amore per il Duce. Un incidente stradale capitato alla signora Ines (Marzia Ubaldi), l’anziana madre di Carlo e Flavio, fa incrociare le vite delle due famiglie romane. Intanto, un misterioso personaggio (Vinicio Marchioni) si aggira intorno alle vite di tutti.
“I predatori” segna l'esordio alla regia di Pietro Castellitto, che con questo film si smarca dagli stilemi tipici di "certo" cinema italiano oscillante tra la caratterizzazione “autoriale” di una borghesia stanca e stancante e l'abuso parcellizzato di stereotipi da commedia degli equivoci. Tengo subito a dire che se c'è un difetto in questo film va rinvenuto, a mio avviso, nell'uso ridondante di variegati piani di ripresa, che vorrebbero essere funzionali all’abito della narrazione, ma che spesso riescono solo a risultare gratuiti. Soprattutto nella prima parte, si fa un abuso talvolta inopportuno di riprese dal basso e dall’alto, di tagli prospettici “ad effetto” e di voli pindarici fatti fare a gratis alla macchina da presa. Nulla che intacchi la godibilità della visione, sia chiaro. Anzi, chi prova un naturale trasporto per le storie volutamente “illineari”, troverà conforto nella buona dose di acidità inserita nei meccanismi narrativi del film.
“I predatori” parte come se volesse essere un film corale, di quelli che indugiano su più scarti di vita contemporaneamente, con diversi personaggi che si incontrano e si scontrano anche solo per un attimo in quel teatro della vita che è Roma. Un’umanità varia che il giovane Castellitto fissa al momento esatto in cui ognuno sembra in procinto di incamminarsi lungo una strada che però non riesce mai ad imboccare nella giusta direzione. Fino a che la storia non si stabilizza intorno alle vite di due famiglie, i Pavone e i Vismara, sul loro ergersi a maschere grottesche di due diverse tipologie dell'umano, molto presenti nei gangli sociali della nostra contemporaneità. Appartenente alla ricca borghesia cittadina i Pavone, dalla facciata progressista ma dall' indole reazionaria, intenti come sono alla conservazione predatoria delle rendite di posizione acquisite. Di estrazione piccolo borghese i Vismara, che ostentano impunemente la loro fede fascista in un tempo di generale sdoganamento dei valori “machisti”. Un incidente fortuito è l'occasione che li fa incontrare, ma hanno poco da dirsi perché difficilmente riuscirebbero a capirsi. Ma è la delineazione essenziale dei rispettivi caratteri ad interessare la regia, il fatto di volerli inquadrare mischiando quando c'è di tragicomico nelle esistenze mediocri di tutti. Ecco, a vederli dalla giusta distanza, come un predatore d'assalto che aspetta chi dovrà essere la sua prossima preda (emblematico in tal senso il personaggio misterioso interpretato da Vinicio Marchioni), li si scopre accomunati dall'identica propensione ad accumulare aspettative che si vogliono ad ogni costo esaudire. Castellitto non sembra affatto interessato a fornire giudizi di valore sui Pavone e i Vismara, quanto piuttosto a misurare il grado di vacuità che spinge le due famiglie in un imbuto di di volgari abitudini.
In questo quadro narrativo, l'uso delle armi, regolare o estemporaneo che sia, da una forma concreta alle coeve forme di alienazione (e forse in filigrana si è voluto omaggiare il "Dillinger è morto” di Marco Ferreri, chissà). Perché l'arma in sé, per ogni singolo individuo, può fungere da surrogato delle proprie frustrazioni, che quando prendono il sopravvento fanno nascere quasi d'istinto l'intenzione di trasformarsi da osservatori passivi della vita che scorre a predatori esibizionisti del proprio destino. La figura centrale e strampalata di Federico e quanto basta per far emergere un corto circuito tra tutte le parti in causa, che non si esprime però mai secondo le sue potenziali intenzioni. Rimane tutto nell’incertezza, come dimostrano soprattutto i caratteri di tutte le giovani vite di questo film, che all'ombra soffocante dei genitori sanno opporre solo soluzioni disarticolate e improduttive (il proposito bombarolo progettato da Federico), che al conformismo conservativo dei padri sanno rispondere solo con della rabbia che si conforma quieta all'aria che tira (come dimostrerebbe la "rabbia rappata" durante la gustosa sequenza di una “scostumata” cena in famiglia).
In definitiva, il nonsense aleggia lungo tutto il film come una cifra stilistica abbastanza riconoscibile, un'aria straniante fatta di cose che non si spiegano del tutto, ma che bastano a fare emergere in superficie una crisi valoriale di cui si vorrebbero almeno intuire le coordinate. E contro questo stato di cose i più giovani si oppongono in maniera disordinata, sia perché non sanno di preciso contro chi o cosa dovrebbero opporsi, sia perché ancora non sanno dove vogliono arrivare. Ognuno ambisce ad essere predatore delle proprie aspirazioni, ma rimangono tutti in balia dei predatori. Di quelli veri.
Esordio quindi interessante di Pietro Castellitto, che si spera non si faccia sopraffare dal vizio “italico” di barattare con irrisoria facilità il coraggio di mostrarsi corrosivi con la più accomodante attitudine a voler piacere ad ogni costo.
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