Un esercizio di stile che tramortisce in una sorta di rischia tutto
L’esordio alla regia del giovane Castellitto non è passato senza lasciare il segno. Si sono lette recensioni a fiumi, la critica è stata più benevola che malevola, letture raffinate e colte de I Predatori hanno aperto un dibattito senza fine. Per questo il film va visto, cercare di inseguire i molteplici racconti che sono rappresentati nella dicotomia delle due famiglie protagoniste, che si scoprirà poi essere agli antipodi più nella forma che nella sostanza. Il film è costruito al millimetro, affiora lo studio profondo, per questo motivo l’ho trovato pretenzioso a tratti fastidioso, a causa di tanta leziosità, tanti riferimenti, tante metafore, arrivare in fondo diventa quasi un’impresa. Lo spettatore viene travolto da una concatenazione di accadimenti, a un certo punto rischia di sentirsi escluso perché fatica a raccogliere il tanto (troppo) che il giovane Castellitto dimostra di saper manipolare molto bene. A mio parere ha peccato di presunzione a scapito della fluidità, certo il suo intento non era la fluidità, ma fornirci il quadro di una sorta di catarsi con lo stile della commedia grottesca. Lo spettatore entra in un frullatore nei primi tumultuosi minuti, spera di uscirne, ma resterà lì dentro per due ore (si fa fatica a respirare, quasi uno stato claustrofobico) e alla fine il troppo stroppia un po’ e solo con la parola fine si riemerge. Il film poi ritorna nei giorni successivi, perché qui siamo di fronte a qualcosa che va oltre, forse troppo? Non saprei a chi consigliare questo film, forse a chi è alla ricerca di qualcosa nella quale rischiare tutto, che è un po’ la scommessa di Castellitto. Avrà vinto la scommessa? Presto per dirlo, però é forte la sensazione di un’opera forzatamente artefatta, preconfezionata e autoreferenziale, peccato perché se solo il regista si fosse posto con più umiltà e spontaneità (con meno vezzi autoriali ha scritto qualcuno) forse avremmo di fronte qualcosa di molto più godibile.
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