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I predatori

Regia di Pietro Castellitto vedi scheda film

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La recensione su I predatori

di mck
7 stelle

Gli alienati sono i borghesi di "sx", i fasci "proletari" stanno benissimo.

 

Pietro Castellitto (classe 1991), dopo qualche prestazione attoriale [un paio di volte e mezza con le cinéma de papà e maman - “Non Ti Muovere”, “la Bellezza del Somaro”, “Venuto al Mondo” -, poi, passando per un dimentica-bile/to Lucio Pellegrini da Nick Hornby, la buona prova in “la Profezia dell’Armadillo” - ZeroCalcare/Scaringi/Mastandrea/JohnnyPalomba -, ed infine nei panni del (nomen omen) Cencio nel prossimo “Freaks Out” di Gabriele Mainetti], esordisce alla regìa e alla sceneggiatura dirigendo, scrivendo e interpretando questo “i Predatori”, che pesca, così come i fratelli D’Innocenzo de “la Terra dell’Abbastanza” e “Favolacce” hanno fatto col cinema del loro mentore Matteo Garrone nell’un caso e con una folta schiera di dioramate lepidezze anestetiche (Lanthimos, Haneke, Seidl, Solondz) nell’altro, nel vasto bacino di un immaginario recente e predominante in quel livello del mainstream che dialoga tramite pseudopodi accessori con le aree dall’aura più arty dell’indie ad alto budget internazionale (“Parasite” di Bong Joon-ho) e con quelle dal midollo più sanguignamente medio-classico del cinema italico (“il Ministro” di Giorgio Amato, Villetta con Ospiti” di Ivano De Matteo, o, per rimanere da una parte sola della barricata, vale a dire quella... barricata(si), "gli Indifferenti" di Leonardo Guerra Seràgnoli), tenendo una maggiore distanza dagli epigoni della commedia all’italiana finiti per prendere spunto da… quella francese (“il Nome del Figlio”), e forse provando, e riuscendoci in parte, ad aggiornare (implementare, direbbero quelli che utilizzano la parola implementare) il discorso che Paolo Virzì aveva cristallizzato dallo zeitgeist di allora (bolognina, mani pulite, gioiosa macchina da guerra, discesa in campo, ulivo) con “Ferie d’Agosto”, anch’esso derivato, in minore, da Mario Monicelli (“Parenti Serpenti”) in generale e da Ettore Scola (“C’Eravamo Tanto Amati”) in particolare.

Al contempo sottilmente geometrico e ricercatamente casuale, e tanto gradevolmente repellente quanto crapulescamente minimalista, “i Predatori” è un film costituito da molti momenti che ingranano la quarta e sgommano (ottimo il montato iniziale col coito dell’effetto doppler ripetutamente interrotto), formalmente cospicuo e sostanzialmente disadorno [“paradossalmente”, una delle scene meno riuscite - perché smaccatamente retoriche - e parimenti simultaneamente più sfruttate a livello promozionale (dal trailer alla locandina) è quella del rappetto bartiano (“Oh! Jingle bey, Batman gay, Robin scemo sei!”) il cui effetto “wannabe ribelle/provocatorio”, attenzione, però, è per l’appunto consapevolmente e volutamente malriuscito, ché il bersaglio di quella sequenza non sono i matusa (se non “di riporto” e in seconda istanza), ma la bimbaminkia oltralpina], ricettacolo di metafore sinceramente e insanamente ambigue, elusive, equivoche, evasive, subdole (facile è il “non” dedicare l’opera - per interposta persona della regista del film nel film - all’irredento nonno materno repubblichino - coscritto del Giorgio Rosa de l’Isola delle Rose - che ha speso la vita a Cercar la Bella Morte m'alla fine ha pesato sul mondo per più d'ottant'anni), che tùrbina a vuoto, in folle, facendo rombare il motore e mandandolo su di giri, e andando a spasso a passo turistico seguendo le piste nere che puntellano il paese come cheratosiche lacerazioni seborroiche - [(di)s]piegandole al proprio argomentante intento (un “Vaste Programme” al contrario) d’incamerare / irregimentare / sintetizzare / ri(con)durre le stesse ad un costrutto assimilabile/comprensibile d’imbruttita belluria - e quelle bianco-rosate (radical chic / gauche caviar: chiunque può usare questi termini, basta che abbia letto Tom Wolfe, altrimenti: legnate sui denti) che il paese lo vivono/subiscono/conducono di riflesso, opache, traslucide, diafane, trasparenti...

Il cast - dei (Pensa in) Pavone, dei Vismara e dei dintorni - è di pregio, ben affiatato: Massimo Popolizio (sempre in parte), Manuela Mandracchia (con sì echi di Margaret Mazzantini, m'anch’e soprattutto della Margherita Buy del sottovalutato e bellissimo “Mia Madre” di Nanni Moretti), Giorgio Montanini (stand-up comedian / monologhista satirico, qui in tarchiata all’uopo forma fisica, e magnifica dal PdV recitativo, che in carriera ha mandato a fare in culo Rai2 / Nemo e Italia1 / le Iene, e quindi non può che starmi simpatico a prescindere dalla sua produzione artistica che conosco poco/meno), Dario Cassini (cabarettista in zona mauriziocostanzoshow/zelig, m’altrimenti per altri versi rispettabile, e questa reiterazione comica nelle scelte di casting è molto azzeccata), Anita Caprioli (sempre: un’apparizione), Antonio Gerardi (“Diaz”, “Romanzo Criminale - la Serie”, “1992/1993/1994”), Marzia Ubaldi, Giulia Petrini, Liliana Fiorelli (bravissime), Claudio Camilli, quella faccia da mammasantissima dei caratteristi di Nando Paone e quella faccia - per l’occasione - da... schiaffi (semi-cit!) di Vinicio Marchioni (uno dei migliori attori italiani di fascia medio-alta in circolazione, punto: senza “vette” pierfrancescofaviniche, ma sempre - sempre - preciso, appropriato, sagacemente inventivo - senza strafare - e sul pezzo).
Pietro Castellitto, invece, si mette lodevolmente in gioco riservando per sé stesso il ruolo (e ritorniamo alla standupcomedycità, alla lieve/docile satiriasi, al cabarettismo) di un Valerio Lundini (l’alter ego affetto da un lieve disturbo dello spettro autistico creato da Valerio Lundini, l’autor comico teatrale, radiofonico e televisivo, personaggio e maschera di sé stesso) in versione bombarolo pellegrino in visita di scortesia alla falloforica tomba-natale nicciana.

Fotografia: Carlo Rinaldi. Montaggio: Gianluca Scarpa. Musiche: Niccolò Contessa (“la Felicità è un Sistema Complesso” e “Troppa Grazia”, mentre i Cani son fermi dall’Aurora di un lustro fa, e così non si fa). Più il moscio-rock di latrina-pound. Producono Rai Cinema, Fandango (Procacci), Regione Lazio e MiBACT. Distribuiscono 01 (Rai) e CHILI.

“Il mio è un film anti-borghese e non anti-fascista.”
Ma vatten’affanculo, va’.

Insomma, un film di merda fatto da uno che sembra riuscire benissimo a capire meno di un cazzo e potrebbe peggiorare, ma per ora: brav(in)o.

Gli alienati, porelli, sono i borghesi del ceto medio-alto di pallida sinistra (“Voi siete i primi giovani stronzi della storia. Prima di voi i giovani non erano stronzi. Nonno non era stronzo da ragazzo. Nonna manco. Te eri stronza da ragazza! Papà era stronzo! Mamma era stronza da ragazza!”: frase, questa, pronunciata da un personaggio relativamente giovane, che se c'è una cosa che potrebbe comprendere quella è la gioventù, e invece no, niente, nulla, neanche quella: vecchio, stravecchio, vecchissimo, praticamente un embrione d'uomo...), ai quali di social-democratico non è rimasto alcunché, né di sociale, né di democratico, mentre i fascisti del proletariato - se non altro quelli non morti ammazzati dal fuoco amico - stanno “benissimo”. E questa rappresentazione - consapevole o no - del Paese è un pregio dell’opera prima.

* * * ¼-½ 6.75   

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