Regia di Mauro Mancini vedi scheda film
Notevole esordio del regista Mancini. Ottima la prova attoriale di tutti, eccezionale quella di Alessandro Gasman
Nell’incipit assistiamo ad uno strano e inquietante evento. Un bambino si trova costretto a scegliere tra diversi gattini, quale adottare, gli altri inesorabilmente verranno buttati nel fiume, il papà di fronte alla riottosità del figlio, gli dice che nella vita a volte si devono fare scelte dolorose. Torniamo ai giorni nostri, il piccolo Simone è diventato adulto, esercita la professione di chirurgo ed è un uomo appagato e di successo, perlomeno all’apparenza, mentre sta risalendo il fiume con il suo kayak, ai limiti dell’antico Borgo Teresiano, nei pressi di Trieste, un SUV non si ferma ad uno stop e travolge un auto, il pirata della strada non si ferma, dileguandosi subito dopo. Simone sente lo schianto e accorre sul luogo dell’incidente. La camera da presa di Mauro Mancini, al suo esordio da regista, a mio sommesso avviso folgorante, indugia sui dettagli: l’abitacolo dell’auto contorto, l’uomo imprigionato nelle lamiere, il sangue che scorre, i rottami e le mani di Simone indaffarate a cercare di aiutare la persona, gravemente ferita, gli parla, gli chiede il suo nome, lo esorta a restare sveglio. Poi a sorpresa la rivelazione! Scopre la sua pelle ricoperta di tatuaggi di svastiche. Così, Simone, slaccia la cinta emostatica, rimediata di fortuna, assistendo, senza più intervenire alla sua agonia e alla sua morte. Lui, ebreo, con un passato difficile e un padre che per salvarsi dall’Olocausto, e sopravvivere ai campi di concentramento, fu costretto a curare i denti ai gerarchi tedeschi, viene meno al famoso “giuramento di Ippocrate” La scena si chiude e se ne apre un’altra, che riguarda il marziale funerale di Antonio , celebrato da una "scolorita" squadra di nazi-fascisti, che dopo il solenne rito, lo salutano al grido di “camerata Antonio Minervini, presente” Si torna su Simone, intuiamo un’indole tormentata , assillato da un’ingombrante figura paterna, da poco scomparso, i cui ricordi sono penosi, alle prese con la sua vecchia casa da svuotare e vendere, sorvegliata da un cane aggressivo che si scaglia contro chiunque. Roso dai sensi di colpa, entra comunque nella vita del fu Antonio, contatta e assume come colf, la figlia maggiore Marica, alias Sara Serraiocco, ignara della verità, che vive con i fratelli in un complesso residenziale popolare, il cosiddetto “quadrilatero di Melara, ma la faccenda si complica, il rapporto con la ragazza diventa sempre più intimo, anche troppo, in più malgrado le difficoltà economiche, il fratello 17enne di lei Marcello è un fervente neonazista e antisemita, come suo padre, inconcepibile che la sorella possa lavorare per un giudeo, prima minaccia Simone, che non gli dà peso, poi insieme ad altri camerati lo picchia selvaggiamente, ma Simone non lo denuncia.A Marica che gli chiede ragguagli sulle sue evidenti ecchimosi, riferisce laconico, “sono stato vittima di un tentativo di rapina” e lei “sicuramente uno straniero, ne girano tantissimi in città”. Ma i rapporti tra loro diventano sempre più confidenziali, porta perfino il fratellino più piccolo a giocare sulle giostre, mentre la sorella spiccia le faccende domestiche. Una sera Marcello dopo un diverbio con uno squallido usuraio, perde la testa e lo aggredisce ferocemente, costui mentre si accascia al suolo ferito a morte, trova la forza di sparare, cosi Marcello si ritrova con un proiettile in corpo, la sorella lo accompagna proprio da Simone, che stavolta non ha dubbi e lo soccorre. Il protagonista, è un grande Alessandro Gassmann, attore ormai del tutto maturo ed emancipato, che si carica sulle spalle un film doloroso, in cui attraverso le poche parole e i tanti silenzi assordanti, viene spiegato il senso dell’opera e del titolo. Quel “non odiare” che non significa perdonare, quella è una prerogativa solo divina. D'altronde non sarebbe possibile perdonare o accettare un’aberrante e criminale ideologia. Tuttavia se non estirpato, l’odio a sua volta genera odio: inarrestabile dalle conseguenze distruttive. Facile e a volte comodo, odiare chi ha la pelle di altro colore, lo straniero, che viene a delinquere o a rubarci il lavoro o ad assillarci al semaforo, perché ci vuole pulire i vetri, la tolleranza s’impara e si costruisce a poco a poco. Il tema è attuale, basta leggere le cronache. Mancini, parte con la sua sceneggiatura firmata da Davide Lisino e lui stesso, da una storia vera avvenuta a Paderborn, in Germania nel 2010. Un medico ebreo si era rifiutato di operare un paziente a causa del vistoso tatuaggio nazista,che portava sul braccio. Il medico, dopo essersi fatto sostituire da un collega, aveva dichiarato: "Non posso conciliare l’intervento chirurgico con la mia coscienza". Il regista gira, tenendo la barra dritta, non facendosi incantare dalle sirene della facile retorica, mantiene la storia asciutta, cruda ed essenziale con personaggi che fanno parlare i volti, poche battute ma precise e taglienti, lavora per sottrazione. Non è un film che racconta l’ideologia dei nazifascisti o la loro concezione del mondo, solo accennata nel film, attraverso l’enfasi grottesca dei saluti romani o dei codardi agguati, tre contro uno, bensì è un film sulle scelte a volte estreme che si devono compiere, sulla complessità delle emozioni, che spesso vanno in conflitto, generando burrasca emotiva. Dice il regista” La contraddizione dell’animo è la cosa più interessante da scavare, al cinema come nelle altre arti. È lì, tra quelle pieghe, che possiamo guardarci davvero. Quando si è chiamati a una scelta ci si guarda dentro e si scopre chi si è e cosa possa voler dire essere umani.” All’inizio del film il protagonista ne è inconsapevole, comincia sbagliando, ma poi matura, capisce e compie la scelta giusta, liberandosi dai demoni, che siano quelli della mente, o quelli con svastica tatuata sul petto. Il sangue di Simone che attraverso una trasfusione, arriva a curare Marcello materializza l’imperativo del titolo, suggerendo l’unica chiave salvifica possibile
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