Regia di John Frankenheimer vedi scheda film
“Nel Giappone dell’età feudale, i guerrieri samurai giuravano di proteggere i loro signori con la vita. Se il loro feudatario veniva ucciso, i samurai venivano disonorati e forzati a girovagare, alla ricerca di lavoro come mercenari o banditi. Questi guerrieri senza signore non erano più chiamati samurai. Erano conosciuti con un altro nome, si chiamavano RONIN”.
Parigi. Cinque uomini si ritrovano, di notte, in un bar. Sam (Robert De Niro), Vincent (Jean Reno), Gregor (Stellan Skarsgard), Spence (Sean Bean) e Larry (Skip Sudduth) sono dei mercenari provenienti da paesi diversi, ingaggiati da un misterioso gruppo estremista per recuperare una valigetta nelle mani di un boss della mala francese. La valigetta fa gola ai separatisti irlandesi ma anche alla mafia russa, ed i cinque si rendono ben presto conto di essere delle pedine di un intrigo spionistico tra doppiogiochisti e infidi traditori.
Penultimo film diretto per il cinema da John Frankenheimer, Ronin è probabilmente uno dei suoi lavori migliori. Un ritorno in grande stile dopo due decenni altalenanti e discontinui, tra buoni risultati e film non degni del suo nome. Un film di azione diventato in breve tempo un cult, grazie allo stato di grazia in cui si trovano regista, interpreti e sceneggiatori (J.D. Zeik e, non accreditato, il grande David Mamet). Film che, rivisto oggi, fa anche un pò di tenerezza se si pensa ai passi in avanti fatti in questi anni ad Hollywood nel campo degli effetti speciali. Perchè Ronin è un film che guarda indietro, rinunciando al ricorso alle tecniche digitali per mettere in scena sequenze spettacolari ed estremamente realistiche realizzate dal vivo e grazie all'enorme lavoro degli stuntman. Con una regia nervosa e virtuosistica, Frankenheimer restituisce il senso fisico dell'azione e realizza alcune sequenze davvero indimenticabili: su tutte, quelle con gli inseguimenti automobilistici tra le strade di Nizza, di Arles e poi di Parigi, uno dei quali si conclude con una incredibile corsa contromano in autostrada. Frankenheimer guarda al genere di cinema che ha egli stesso calcato, al noir americano degli anni Settanta (Friedkin su tutti) ma anche al polar francese con il suo tono secco e disilluso. Ma soprattutto Ronin è un film che si trasforma in una malinconica esaltazione dei perdenti, in una storia di amicizia nella quale contano gli uomini prima di tutto. I protagonisti sono come i 47 Ronin della leggenda giapponese che viene raccontata a Sam: essi "potevano lavorare per un nuovo padrone, o potevano lottare per sé stessi. Ma hanno scelto l'onore, hanno scelto il mito".
"Hai mai ucciso qualcuno?" "Una volta ho offeso qualcuno", risponde Sam che ha il volto ruvido, dolente e disilluso di un Robert De Niro che forse non è stato mai più così bravo negli ultimi venti anni. Alla fine di tutto, non importa più niente cosa contenesse o meno la valigetta, chi abbia perso e chi abbia vinto. Il senso di sconfitta lo si legge negli occhi di questi samurai senza padrone, lo si ascolta nelle parole.
“Conoscevo della gente che voleva vivere soltanto per aprire un bar”
"Se fossero vissuti, lo avrebbero aperto?"
"No."
"Si sono risparmiati la delusione".
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