Regia di Iveta Grofova vedi scheda film
La città di Asch si trova al confine con la Germania. Basta salire su una torre, posta in cima a una collina, per avere la sensazione di toccarla con un dito. Dorota può credere che questa sia davvero la realizzazione di un sogno: avere accanto un uomo che la desidera e che le promette di tenerla con sé per sempre, in una casa grande e confortevole, e di portarla in vacanza su una barca. Lui è tedesco, e potrebbe essere suo padre. Lei è slovacca, ed ha appena dato l’esame di maturità. Non si sono incontrati per caso. Lei si era trasferita nella Repubblica Ceca per lavorare in una fabbrica tessile, ma poi era stata licenziata, Rimasta senza soldi, ha cercato di rimediare nel più squallido dei modi: offrendosi per denaro, facendosi avviare alla prostituzione da Silvia, una sua connazionale conosciuta in un locale notturno. Sarebbe bello se la vita fosse così: un’artistica composizione in cui spiccano due figurine intrecciate, impegnate a mescolare sesso e romanticismo, sentimento ed interesse, istinto e fantasia. Sarebbe tutto più semplice, e molto meno problematico, se ognuno di noi fosse solo un misero dettaglio, in mezzo a un grande panorama. Un puntolino nero, piccolo come un insetto, sullo schermo di una webcam. Lo schizzo evanescente di un cartone animato. Un ghirigoro appena, al centro di un campo lungo colorato, che, volendo, si può scambiare per l’immagine di una favola, la stanza delle bambole, la scena di un teatrino, l’interno di una scatola magica. L’incanto, si sa, è nei particolari: in quei lampi di luce al neon colti di fuggita, accenti di malizia ripresi di nascosto, da angolazioni furtive, giusto per farli sembrare quasi ingenui, per poter dubitare che siano, in fondo, così rozzamente veri. La penombra maschera la realtà. La sublima con l’energia annichilente dei bagliori psichedelici, dei contrasti cromatici che, dall’espressionismo in poi, sono diventati il marchio ufficiale degli urli inudibili, quelli che nascono da dentro ma rimangono sottintesi, soffocati dalla tristezza senza un perché. Dorotka non parla mai del suo dolore. Lo lascia lì, muto e inerte, appeso agli occhi, come il dito di trucco che ne opprime l’acerba giovinezza. Il suo nome significa dono di Dio, e lei si convince di non poter essere nulla più che un pacco regalo, un oggetto ornamentale che reca gioia se è ben confezionato, un omaggio che si presenta sempre a portata di mano: lungo una strada, su un divano, al tavolo di un bar. Respinta dalla fortuna, per reazione si trasforma in un ninnolo facile da avere, che non fa storie se riceve poco, perché è poco quello che può dare. Il minimalismo della sostanza si riflette nelle caotiche sfaccettature di un vetro infranto, nelle aguzze frastagliature di un disegno affrettato dal disgusto, dal timore di rivelare tutta la verità. Intanto la vicinanza con la frontiera contribuisce a comprimere il quadro, appiattendo la prospettiva, riducendo lo spazio. Quello che si può avere è tutto lì, basta allungare un braccio per prenderlo. E il suo valore è quello fittizio di un bacio dato per gioco o per necessità.
Made in Ash ha concorso, come rappresentante della Slovacchia, al premio Oscar 2013 per il miglior film straniero.
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