Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film
Secondo una teoria scientifica, l'organismo umano è fatto per sopportare senza problemi una quota costante di alcol. Per la precisione 0,5 hl per litro di sangue. Se si riuscisse a tenere costante questa percentuale ne guadagnerebbero il grado di attenzione e il livello di creatività. Martin (Mads Mikkelsen), Tommy (Thomas Bo Larsen), Nikolaj (Magnus Millang) e Peter (Lars Lanthe) sono quattro amici che decidono di seguire questa teoria soprattutto perché si stanno scoprendo degli insegnanti sempre più annoiati dal proprio lavoro e degli uomini sempre più avvinti dallo scorrere ordinario delle giornate. All'inizio i risultati si vedono, il tenue stato di ebbrezza è quanto basta per rivitalizzare il loro lavoro a scuola. Ma quanto è facile conservare il senso del limite e non trasformare uno stimolo eccitante in una forma pericolosa di dipendenza ?
Sin dai tempi di “Festen”, uno degli esiti più felici del sedicente manifesto “purista” denominato “Dogma 95” capitanato da Lars von Trier, Thomas Vinterberg ha sempre prediletto una narrazione tesa ad assorbire l'emergere di ogni singola criticità esistenziale nella coralità della messinscena. Detto altrimenti, anche quando c'è un personaggio che spicca chiaramente sugli altri, la sua condizione esistenziale lo è sempre in una misura complice e condivisa. Il cinema di sottrazione dell'autore danese ama indagare con fare discreto il senso del dramma che cova sotto le ceneri di esistenze appassite. Un quadro poetico in cui, per la determinazione del timbro drammatico conferito alla storia, il peso specifico attribuito agli impercettibili sussulti dei corpi non è meno decisivo dell'esplicita esposizione del dolore.
Questi tratti salienti della poetica di Thomas Vinterberg sono puntualmente delineati in “Un altro giro”, un film che in maniera sorniona gioca di sponda con le sottintese sfumature dell'animo per farsi domande importanti sullo stato delle cose. È possibile non trasformare un abitudine in vizio ? Una semplice debolezza in aperta ossessione ? Una trasgressione alla norma in dipendenza ? Ecco, “Un altro giro” non è un film a tesi e ben che meno sembra interessato a darsi un timbro moralistico. Si limita semplicemente ad usare la posizione privilegiata di quattro vite in cerca di un perdurante stato di ebbrezza per indagare dal di dentro quella linea di confine che si pone tra la consapevole apatia e la lucida follia. Un limite che consiste nel valutare con calcolata fermezza quando è il caso di dare un'accelerata ai neuroni dormienti e quando, invece, il cervello in riposo non genera danni particolari alla gestione del proprio status identitario.
Martin e i suoi tre colleghi usano l'alcol come un termometro della propria autostima, che dovrebbe trovarsi ad un grado ottimale ogni qualvolta si riesce ad “iniettare” la corretta quantità di alcol nell'organismo. Ma è possibile rimanere in quel limite che ogni volta rivitalizza l'indole creativa ? Che è capace di trasformare una mente apatica in occhi aperti sul mondo ? Che sa sconfiggere la noia con spruzzate di rinnovata vitalità ? Ecco di nuovo l'invadenza delle domande, che la regia sottintende in ogni istante indipendentemente dalle risposte fornite dallo sviluppo visibile della narrazione. Perché quelle domande conservano una loro immodificata validità nel modo in cui Vinterberg le fa interagire con gli umorali sussulti emotivi dei protagonisti : con le vite che progressivamente si appassiscono, nel lavoro che diventa ingestibile, nelle famiglie che si sgretolano. In tal senso, per quanto si tratti di un film corale con le modalità descritte all'inizio, è Martin il personaggio chi risulta essere maggiormente caratterizzato. È lui la pietra angolare di una gestione del vizio tutt'altro che facile, è intorno alla sua vita che la macchina da presa si mette a gironzolare per contare i giri a vuoto che ogni volta lo costringe a ricominciare daccapo. L’attenzione rivolta alla sua sagoma claudicante serve a far emergere il vuoto panico che lo avvolge e coinvolge. Un modo sempre usato da Thomas Vinterberg per dare una forma visiva riconoscibile a ciò che ineluttabilmente accade.
Un aspetto del film che mi sembra giusto mettere in risalto è la presenza di una vena ironica che si intreccia con la trama drammatica. A mio avviso, questo tacito contrasto appare in tutta evidenza quando, in una delle diverse volte in cui appare la didascalia relativa allo studio sull’alcol che i quattro amici starebbero seguendo, appare una scritta che recita : “Lo studio della teoria secondo cui agli esseri umani mancano 0,5 hl di alcol per litro di sangue, fermatevi li …” Poi, quasi come se si trattasse di una calcolata pausa di riflessione, continua apostrofando : “A causa delle possibili conseguenze incontrollabili e del rischio… alcolismo”. Il tono oscilla tra il tragico e il sardonico, come un gioco messo in piedi da chi ne conosce già l’esito. Aggiungiamo che questa sorta di “vademecum scientifico” arriva dopo una successione di fotogrammi che ritraggono la crisi alcolica più acuta dei quattro amici, una crisi che l’autore danese accentua di senso attraverso un montaggio lisergico sapientemente architettato. Ecco, la somma di tutto questo fa apparire la cosa un po’ beffarda oltre che tristemente chiarificatrice.
Anche se rimane lontano il felice esito di “Festen” (poi io ho una particolare predilezione per “Submarino”), “Un atro giro” conferma la capacità di Thomas Vinterberg di fare un cinema di classe.
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