Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film
E’ piuttosto imbarazzante per un “vinterberghiano zentropista” come me ragionare su questo film. Fermo restando che della “zentropia” originale poco resta al regista danese che tanto ammiro (la cui americanizzazione ha forse cambiato i connotati, ma non certo annullato i talenti – vedasi il bellissimo “Far For The Madding Crowd” che ha firmato qualche anno fa-), quel che più mi mette in difficoltà è il soggetto di questo “Druk” (= Ubriaco, titolo infelice sia nell’originale, sia nella versione internazionale che quella italiana ripropone alla lettera). Voglio dire: bersi un goccetto per farsi un po’ forza e coraggio prima di affrontare una prova impegnativa è cosa che saprebbero anche le galline (se mai ad una gallina fosse chiesto di dover discutere una tesi di laurea o di dover dichiarare il proprio amore al galletto coi capelli rossi), ma che questa faccenda diventi poi l’oggetto di uno studio metodico, pragmatico, catalogabile, oggetto della profonda riflessione di quattro stimati e valenti professori alle prese con i loro comunissimi (?) problemi di uomini di mezza età di una Società di Mezzo (sempre più bella quella Danimarca lì in mezzo! Sentito che inni? Che canti polifonici di voci quasi bianche? E i testi?? Da zentropista convinto la vedrei bene come capitale di questa misera Europa moribonda. Bravo Vinterberg, evviva!), mi lascia un po’ perplesso.
Va bene. Diciamo che, forse, capisco la teoria: quello zero virgola zero cinque costante di tasso alcolico che ci mancherebbe nel sangue rappresenterebbe quel poco/tanto che manca all’Uomo per essere pienamente, per amare pienamente e senza patemi d’animo la nota ragazzina dai capelli rossi. Ovvero: per essere felice e realizzato, compiuto, totale, corretto. Adattato ed accettato. Così sia, amen. Proseguendo poi col ragionamento seguendo la sceneggiatura, diciamo che l’Uomo, per sua natura, non si accontenta mai, e allora ad un certo punto vuole mangiarsi anche la mela per sperimentare se sopra lo zero virgola zero cinque non ci sia altro, di più e di meglio, magari tutto, e finisce per bere da far schifo. Ho capito (ho capito?). Giusto, bene.
Ma allora: perché balli così tanto, alla fine? Cos’ha vinto, cosa ha conquistato, guadagnato, raggiunto la (contro)figura di quel (fantastico) professor Mads Mikkelsen tanto da lasciarsi andare a quella danza scatenata, se non il collo (colletto) di una nuova bottiglia cui attaccarsi prima di gettarsi (suicidio o liberazione? Nirvana o Inferno? Il film non dice... Zentropa, un tempo, parlava più chiaramente...) nelle acque di un mare morente dopo aver perso tutto della propria vita (moglie, figli, reputazione professionale), a parte l’euforia indotta di quattro ragazzetti neo diplomati che è esterna ed autonoma da sé e che, dopo non esserci palesemente mai appartenuta, né averci rappresentato, determinato, proseguito nell’asse ereditario, è restata invece tristemente sola ed infelice dietro i suoi occhiali di bambino con la manina sul cuore a scialacquare inni prima di una partita prima di calcetto forse persa, forse vinta?
Vinterberg in questa opera appare confuso almeno tanto quanto lo sono io guardando il suo film. In questo (e lo ritengo un onore, sia chiaro) siamo pari. La regia, le prove attoriali di tutti (compreso il bambino con gli occhiali) sono eccellenti, ma quell’idea (dis)torta che sta alla base di tutto non mi ha entusiasmato come nelle precedenti occasioni in cui l’ho incontrato. Vedremo cosa decreterà (per quel che vale) l’imminente notte degli Oscar.
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