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Central do Brasil

Regia di Walter Salles vedi scheda film

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La recensione su Central do Brasil

di Aquilant
6 stelle

Volti. Volti che dettano ansiose parole scaturite dal fondo dell’animo. Volti di gente sincera, gioviale, di figli di un Brasile anestetizzato dall’analfabetismo che per un real si concedono la gioia di dare libero sfogo al volo dei loro  più sinceri sentimenti, in un afflato dal valore salvifico e rigenerante che non perverrà mai alla dovuta destinazione. Palpiti di gioie in cerca di condivisione, memorie, emozioni, il tutto tradotto su carta da stracciare a piacimento. Perché quello che conta in fondo è il sogno, è l’illusione di un momento di autoliberazione, è l’affinità oggettiva col prossimo da ricercare incessantemente nel caos di un ambiente cristallizzato in un acido sentore di miseria.

Visioni incessanti di traboccanti metropolitane. Fiumi di folla in uscita ipercinetica, come anonime entità di un immenso agglomerato cittadino che ingloba ed ingolfa nel suo ventre ricchi e poveri, gente istruita ed analfabeti alla ricerca di facili illusioni. Ed ancora metropolitane. Grondanti di folla. Ed un ragazzino caparbio che insegue un vagone in corsa, armato di cordoglio e determinazione. La città è simile in tutto e per tutto ad una jungla destabilizzante dove tutto è permesso, ricettacolo di emarginati, sfruttati, borseggiatori, dove una sorta di giustizia sommaria è di casa, dove si uccide per poco o per niente in un odore di corruzione e disfacimento dettato da miserevoli condizioni di vita.

La prima parte del film si avvale di una sfolgorante descrizione di questa città allucinata, di esseri senza scrupoli, di crude realtà di prevaricazione infantile. Il regista affoga i volti segnati dal turbinio della vita in attoniti primi piani, si affida anima e corpo a piani sequenza per comunicare agli spettatori in tutta la sua immediatezza la caotica e variegata realtà metropolitana. Affastella scene di vita precaria affratellate a reminiscenze neorealistiche italiche da primo dopoguerra. Riempie di luce calda ed avvolgente le ambientazioni d’interni per controbilanciare la fredda sensazione di squallore e miseria che emana tutt’intorno. Rompe di tanto in tanto l’equilibrio visivo della narrazione con ardite architetture prospettiche immergendo i personaggi momentaneamente ridotti ad entità lillipuziane nel vortice di un macrocosmo volubile ed aleatorio.

Dopo la prima mezz’ora la pellicola inizia a perdere colpi in modo precipitoso, naufragando in una smaccata convenzionalità di stile e perdendo per strada tutta la tensione accumulata nelle ardite sequenze iniziali. I toni diventano più concilianti, la realtà del road movie prende implacabilmente il sopravvento sulla concitata nervosità delle sequenze iniziali e la storia si distende in una più convenzionale narrazione non priva di sussulti ma sicuramente scontata ed in taluni tratti addirittura soporifera. Ed il banalizzante finale intriso di patetismo telenovelistico sicuramente finisce di rovinare quanto di interessante era stato introdotto nelle premesse iniziali.

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