Regia di Joe D'Amato (Aristide Massaccesi) vedi scheda film
Noto ai più con lo pseudonimo di Joe D’Amato, Aristide Massaccessi si avventura nello SW prima come cinematografo e operatore, e poi come regista. “Giubbe Rosse” è l’ultimo degli appartenenti al grosso del genere, i seguenti quattro sono distribuiti tra l’85 e il 2003, e si discosta fin da subito dai canoni tradizionali. Siamo nel ’75 ed il successo dei film di Fulci su Zanna Bianca sono dietro l’angolo. Ecco che non è poi così insolito un western nostrano ambientato tra la neve e i canilupo, ma il film di Massaccessi, di impostazione accademica, rischierebbe di affossarsi nella neve più fredda se non fosse per un’idea narrativa che lo rende interessante. Infatti il regista preferisce parlare del criminale Cariboo, piuttosto che di Fabio Testi che è l’eroe in giubba rossa del titolo. Ci si concentra soprattutto sul rapporto tra Cariboo e Jimmy, l’allora giovane Renato Cestiè (traite-d’unione con il genere di Zanna Bianca, oltre allo stesso cane Buck che fa più “Il Richiamo della Foresta” che altro), più che sulla caccia di Fabio Testi. Sia chiaro, è ben raccontata e ben rappresentata, soprattutto all’inzio, ma con il passare della pellicola ci incuriosiamo di più di quello che potrebbe accadere tra rapitore e rapito tanto da sospettare un colpo di scena finale con agnizione di paternità insospettata. Ma le trame del Western con la W maiuscola sono fitte e varie, direi infinite, e nonostante il gioco e il ri-gioco di schemi e modelli, chiari ed evidenti ad ogni cultore, non si riesce mai ad annoiarsi. Anzi, proprio in quegli schemi noi cerchiamo il nuovo punto di vista che immancabilmente arriva. Perchè il Western è sempre nuovo, e anche in livrea invernale riesce ad entusiasmarci. Peccato per le poche idee stilistiche che si possono contare sulle dita di una mano. Una su tutte la sparatoria finale durante lo scambio, poi purtroppo si passa alla solita sparatoria di campi e controcampi. Ma il film è solido, e nella sua triste cantilena invernale ha il suo punto di forza: metterci davanti ad un vero racconto ottocentesco, fatto di piccole cose, di case di legno, di focolari e di grandi gonne. Un plauso a tutta la ricostruzione degli interni davvero evocativa.
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