Regia di Nora Ephron vedi scheda film
Ma era davvero indispensabile questo aggiornamento che tenta di “rinverdire” i fasti della commedia romantica aggiornandola ai tempi di internet? Il film ha tutti i “vizi” e i difetti che caratterizzano le produzioni (ormai spesso ripetitive e inutili) del clan Ephron che qui più che rifarsi a Lubisch (nonostante il chiaro omaggio tributatogli nel chiamare il negozio di libri “The shop around the corner”) intende semmai scimmiottare impudicamente il proprio “già fatto” (“Insonnia d’amore” soprattutto) riproponendoci con poche variazioni la solita minestra ormai diventata sciapa. Per carità, la cornice è piacevole (quasi alleniana, nel disegnare una New York autunnale e crepuscolare che sarebbe degna di miglior causa), gli interpreti (soprattutto i comprimari) all’altezza – solo Tom Hanks risulta un po’ troppo legnoso – e la sceneggiatura nel complesso tiene (anche se è troppo frettolosa e “improbabile” nel dipanare il nodo dello scioglimento finale, visto che l’incompatibilità qui non è riferita solo a una antipatia epidermica, ma assume i toni della contrapposizione, sia pure in chiave leggera, “dello scontro di classe” - l’inesorabile legge del capitalismo in espansione che cannibalizza le piccole realtà operative che intralciano l’ampliamento del proprio dominio - e che non può essere risolta in modo così semplicistico, perché finisce per diventare davvero poco credibile se non addirittura improbabile). Ma su questo punto si potrebbe persino chiudere un occhio, accettando come “inesorabile regola del genere” la facilità estrema della riconciliazione finale che non trova sconfitti o delusi (i personaggi che potrebbero continuare a nutrire dei risentimenti come i commessi che hanno perso il lavoro, sono “abbandonati” durante il tragitto e non ritornano più nella narrazione per non turbare gli equilibri): quello che invece in qualche modo disturba in maniera determinante (o per lo meno disturba me) è questa insopportabile aria di déjà vu che rende il tutto troppo prevedibile e scontato fino dall’inizio (non solo l’epilogo, ma anche le situazioni intermedie) pedissequo e conforme, nonostante gli evidenti sforzi fatti per mantenere il discorso all’interno di un disegno delle fisionomie dei personaggi spostato – anziché nella direzione del versante sociale che resta decisamente sfumato, quasi un pretesto sullo sfondo - verso la sfera più astratta che oppone l’idealizzazione del sogno alla realtà, così da rendere il percorso più metafisico (e sentimentalmente accettabile) anche se poi qui, come appunto nelle favole, persino la realtà riuscirà a prendere le sembianze del sogno e a diventare addirittura “migliore” di quello. E anche le battute che riescono sempre a sorreggere e a rendere divertitamene accattivanti soggetti di questo tipo, presentano qui polveri più bagnate del solito (di memorabili, da ricordare davvero, mi vengono in mente solo quella sui Kleenex e quella che paragona il Padrino ai Ching). Probabilmente persino troppo tirato per le lunghe, nonostante le schermaglie e i battibecchi, alla fine, non avendo davvero niente “da scoprire” (c’è persino “Over the rainbow” a suggellare la “felice conclusione della favola”) si insinua prepotente una progressiva, opprimente nostalgia che monta sempre più che genera il rimpianto per le inarrivabili atmosfere soffuse di sottesa malinconia di quella Budapest “da cartolina” che rappresenta la cornice dell’indimenticabile opera di riferimento, quello “Scrivimi fermo posta” del 1940, ineguagliabile capolavoro Lubischiano con James Stewart e Margaret Sullavan che non teme assolutamente le offese del tempo e che anche rivisto oggi, nonostante gli anni trascorsi, risulta di gran lunga più fresco, godibile e divertente di questo tardo rifacimento elettronico. Meglio allora il passaggio intermedio della trasposizione in musical operata dall’anonimo mestierante Robert Z. Leonard nel 1949 (che proprio però in questo genere ha saputo dare il meglio di sè) con “I fidanzati sconosciuti” forse per merito anche della spumeggiante sceneggiatura, opera - fra gli altri - anche di Albert Hackett e Frances Goodrich dalla mano solidamente sicura (che si prenderanno anche l’onere di ridurre per le scene in maniera soddisfacentemente appropriata, restituendoci tutta la drammaticità degli eventi, la materia sofferta” e personale “Diario di Anna Frank”, tanto per far capire di chi parliamo) e dell’ottima dinamica di alcuni numeri musicali rimasti memorabili, oltre che della consueta, solida professionalità di Judy Garland e di Van Johnson, interpreti di riferimento.
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