Regia di Branko Schmidt vedi scheda film
Branko Schmidt è un regista croato molto apprezzato in patria ma purtroppo sconosciuto (o quasi) qui da noi in Italia[1].
Di lui ho visto una sola opera (quella di cui sto parlando in questa circostanza) ed è oggettivamente troppo poco per poter esprimere un mio personale e definitivo giudizio sul valore complessivo del suo percorso artistico. Mi piacerebbe dunque poter approfondire un po’di più la sua conoscenza perché già da questa sua pellicola che risale all’ormai lontano 2006 (e che non è certo esente da pecche), mi è sembrato un nome molto interessante, portatore di un’idea di cinema forte indirizzata soprattutto sul versante del sociale. Scorrendo i titoli e la genesi della sua filmografia, si nota infatti un suo spiccato interesse a trattare tematiche importanti e a documentare (anche brutalmente) le contraddizioni, le arretratezze e gli orrori che hanno devastato il suo paese a partire dalla sanguinosa guerra dei Balcani che ha lasciato tracce profonde e ferite difficili da ricucire nonostante gli anni trascorsi da quei tragici eventi.
Di tutto questo, ne ho avuto anche una indiretta conferma leggendo le due recensioni qui sul sito di quella che possiamo definire la sua opera più conosciuta (almeno da noi in Italia) ma solo come fama perché, pur non rientrando nella cinquina finale, fu a suo tempo candidata all’Oscar per il miglior film in lingua straniera, cosa questa che le ha garantito una maggiore, per quanto labile, visibilità) ma sulla quale io non posso spendere nemmeno una parola perché purtroppo non l’ho vista (ammesso e non concesso che abbia avuto una pur minima e marginale distribuzione in sala, cosa della quale dubito fortemente). Mi riferisco a Vegetarian Cannibal (Ljudožder vegetarijanac) del 2012 e alle interessanti valutazioni critiche fornite da @OGM (che gli ha asssegnato 4 stelle)e da @maurizio73 (che di stelle gliene ha date solo 3) che hanno messo in evidenza pregi e difetti di una pellicola comunque singolare e stimolante definita da Maurizio “una sconsolata apologia sul potere che si esercita sul (ed attraverso il) corpo della donna, ridotto ad oggetto di piacere e strumento di un potere maschile che agisce trasversalmente, dalla criminalità dello sfruttamento sulla strada al controllo degli apparati di polizia (…) in una escalation di errori ed orrori medici che iniziano con il tollerare la mediocrità e la negligenza e finiscono per premiare l'avidità ed il cinismo”. Per chi è interessa to ad approfondire, le due recensioni sono leggibili digitando i seguenti link: //www.filmtv.it/film/54830/vegetarian-cannibal/recensioni/653549/#rfr:none
//www.filmtv.it/film/54830/vegetarian-cannibal/recensioni/832169/#rfr:none
Forse noi conosciamo davvero troppo poco del crogiolo di razze e di etnie che popolano la penisola ex Jugoslavia e delle tensioni (ancora oggi tutt’altro che risolte) che rendono difficile la loro convivenza pacifica. Tensioni latenti da sempre ma che sono esplose in tutta la loro virulenza solo dopo la morte di Tito che le aveva tenute a bada con la feroce mano della sua tirannia, e penso di conseguenza che, al di là dei trattati di storia, sia proprio il cinema (più di ogni altra cosa) il miglior strumento disponibile per rendere più chiare e abbordabili quelle che sono le matrici (e le conseguenze) di questi violenti conflitti che hanno radici molto profonde difficili da estirpare.
In questo senso, credo che la filmografia di Schmidt[2] (che fornisce testimonianze dirette vissute e raccontate dall’interno) potrebbe rappresentare davvero un valido contributo al riguardo poiché amplierebbe ulteriormente il quadro che ci siamo fatti attraverso la visione di tutte le altre opere cinematografiche (che non sono tantissime) che hanno provato a raccontarci, ciascuna a suo modo, qualcosa di quella terra e di quelle congenite ostilità.
Eduardo Becattini che sicuramente ne sa molto più di me in proposito, nel recensire The Melon Route (in originale Put lubenica) pone il cinema di Schmidt (e in particolare questo titolo)a metà strada fra La polveriera di Goran Paskaljevic (per il crudo ed esibito realismo che contraddistingue entrambe le pellicole) ed Emir Kusturica (per il suo onirismo che in qualche modo ritroviamo, sia pure un poco più addomesticato, anche in questo film).
Per quel che mi riguarda (e quel che vale, poiché - e lo ribadisco - ho visto solo questo titolo) io lo assocerei invece più facilmente al cinema di Antonioni perché è un film fatto più di silenzi che di parole, ma soprattutto per il senso di alienazione che domina tutta la storia.
Si potrebbe semmai accostare (ma come seconda istanza) a titoli come Biutiful di Alejandro González Iñárritu o The Whistleblower di Larysa Kondrack (che cito però solo perché ci ho trovato qualche piccola assonanza narrativa, non per altro poiché entrambe le pellicole sono state realizzate in anni successivi al 2006). La mia è dunque solo una specie di suggestione epidermica che forse non dovrei nemmeno prendere in considerazione perché la loro datazione mi fa comprendere che non possono in alcun modo avere influenzato la visione del regista e che semmai potrebbe essere accaduto proprio l’esatto contrario.
Tuttavia, se prendo per buono il giudizio espresso da Becattini, mi sembrerebbe di poter affermare che fra Paskaljevic e Kusturica, pur con qualche semplificazione (comunque efficace per rendere palese il dipanarsi del racconto) Schmidt è sicuramente più vicino al primo che al secondo.
Ispirato a una storia vera che è ancora di un’attualità davvero sconcertante, il film è ambientato lungo le rive del fiume Sava, linea di confine fra Bosnia e Croazia, durante la guerra degli anni ’90. Lì, in quel contesto degradato, consumato dalla tossicodipendenza e immerso in un mondo di ricordi sconvolgenti, vive in solitudine - confinato in una stamberga fatiscente - Mirko, un ex soldato a cui la guerra ha spento tutte le positività della vita e che non nutre più alcuna speranza nel futuro. L’uomo, che deve fare i conti con i fantasmi di un passato che lo ossessiona e che nemmeno la droga riesce ad esorcizzare, continua a gettare mine nel fiume come se stesse ancora guerreggiando e, per sopravvivere, svolge dei lavori in nero (spesso sporchi), fornitigli dal corrotto zio capo della polizia che è in combutta con la mafia locale.
Il film comincia con un gruppo di operai che sulle rive della Sava sta scavando quella che poi si scoprirà essere una fossa comune piena di cadaveri (e già questa è una sequenza abbastanza disturbante). La malavita però non ferma certo le sue azioni criminali nemmeno di fronte allo scempio di così tanti corpi martoriati. Approfitta anzi della macabra circostanza che polarizza l’attenzione generale, per rafforzare uno dei suoi lavori più redditizi e pericolosi, quello della tratta degli esseri umani. Per questo, tramite lo zio del ragazzo e la mediazione dell’altrettanto sbandato Meho, viene chiesto a Mirko di rendesi di nuovo disponibile per traghettare sull’altra riva del fiume e fuori dai confini della Croazia, un folto gruppo di clandestini cinesi che vorrebbero raggiungere la Germania alla disperata ricerca di un futuro migliore.
L’ennesimo traghettamento con quella bagnarola sgangherata[3] che viene usata per simili rischiosi attraversamenti, finisce però in tragedia questa volta: il barcone affonda portandosi dietro l’intero carico umano che trasporta. Annegano così tutti, salvo una ragazza che nel disastroso naufragio ha perso pure il padre in compagnia del quale viaggiava per fuggire dalla miseria.
Per la giovane donna rimasta sola in una terra straniera e a lei totalmente sconosciuta, i primi drammatici momenti sono di smarrimento disperato che piano piano lascia però il posto a una inaspettata determinazione volta a cercare la sopravvivenza ad ogni costo.
L’unica persona alla quale può aggrapparsi nella speranza di poter trovare un nuovo passaggio per tentare di raggiungere quella che vorrebbe che fosse la sua destinazione finale, è proprio Mirko che l’ha accolta nella sua misera catapecchia per darle almeno un tetto dove ripararsi.
Sono dunque l’infelicità e la solitudine di due sbandati che non riescono a comunicare nemmeno attraverso la parola (perché nessuno dei due conosce la lingua dell’altro) che si incontrano e che si convertirà presto in una specie di caparbia solidarietà di auto mutuo aiuto che finirà per trasformarsi poi in un attaccamento sempre più profondo e quasi viscerale, un qualcosa che li terrà uniti sempre più strettamente e che li aiuterà a darsi in qualche modo reciprocamente, la forza per resistere e poter continuare a sopravvivere in quell’ambiente brullo e nebbioso.
Ci saranno ovviamente molti sviluppi successivi, ma a quelli accenneremo dopo.
Le tematiche affrontate dalla pellicola (la natura indifferente alle miserie umane, il problema delle migrazioni clandestine, il contesto degradato in cui i nostri due protagonisti trascinano le loro esistenze, le conseguenze di una guerra che ha fatto emergere i peggiori istinti rendendo gli uomini più bestie delle bestie, lo sfruttamento delle povertà per fare affari, il disprezzo per la vita etc. etc.) non sono certamente nuove. Nuovo (o forse è meglio definirlo “inedito”) è semmai il modo di raccontarle scelto dal regista, poiché nel film si passa con disinvoltura (e non è cosa molto frequente) da un genere a un altro (con alterne fortune però poiché in questa un poco camaleontica alternanza, non tutto finisce per quadrare alla perfezione) e dove la parte migliore è e rimane la sottotraccia narrativa (davvero ben coordinata e particolarmente coinvolgente) che tratta le ossessioni causate da quel tragico passato con tutti quei lutti che si sta portando ancora dietro. Un passato inobliabile che pesa come un macigno e continua a mantenere vivi e reali, i fantasmi mai esorcizzati con cui quel popolo è costretto a convivere e a fare i conti.
Non ci sono però tracce di esuberanza formale né tantomeno significativi voli pindarici capaci di stemprare un poco la tensione sotterranea in questo racconto giocato su più piani narrativi che si sviluppano man mano che si va avanti nella storia e a mio avviso (e lo ribadisco) non tutti strettamente necessari: ce n’è addirittura uno che poco aggiunge e molto toglie (soprattutto l’attenzione dallo snodo principale)che finisce addirittura per annacquare un poco il tutto e rendere dispersiva la materia.
Per fortuna però dalla sua posizione di osservatore privilegiato, lo sguardo del regista resta sempre limpido, in grado di mantenere dritta la barra del timone e il controllo della situazione anche quando non riesce a trovare la giusta quadratura delle cose e finisce così per contraddirsi un poco.
Cerco di spiegarmi meglio: nella prima parte del racconto Schmidt mostra una particolare sensibilità nel mettere a fuoco le psicologie dei personaggi (e parlo soprattutto dei due protagonisti). Mirko per esempio ci viene presentato come una specie di ameba passiva incapace di prendere anche una pur minima posizione oppositiva a qualsiasi sopruso o prevaricazione in quella realtà di corruzione e spietato affarismo ma a un certo punto quando il regista fa virare inaspettatamente il film verso il noir e l’hard boiled accettando e facendo suoi tutti i cliché che caratterizzano il genere (indubbiamente la parte più debole dell’opera) viene a modificarsi sostanzialmente anche la psicologia dell’uomo con un cambiamento troppo repentino che inevitabilmente altera tratti del suo carattere introverso messo a fuoco prima, davvero molto difficile da comprendere ed accettare. Risultano altresì altrettanto poco convincenti gli impliciti suggerimenti che ci dà il regista per giustificare tale trasformazione (l’ipotesi che l’uomo possa aver intravisto in questo una possibilità di redenzione dal suo disastroso passato).
Di fatto, Mirko prenderà questa volta inaspettatamente le difese della ragazza in transito, e diventerà per questo (udite, udite!!!) in un implacabile paladino/giustiziere che lotterà per salvarla da sicura morte poiché la mafia vuole eliminarla, in quanto unica sopravvissuta, e come tale, la sola scomoda testimone della tragedia che si è consumata e della quale non si vuole lasciare alcuna traccia.
Questa però è una sbandata che fa approdare il film a una più plateale resa dei conti (sia pure molto stilizzata) che sembra voler in qualche modo caldeggiare l’ipotesi di un sia pure parziale lieto fine davvero fuori luogo. Un cambiamento sicuramente “appassionante” e “coinvolgente” dal un punto di vista strettamente narrativo che a me sembra però solo un piccolo contentino per lo spettatore poiché totalmente stonato nel contesto.
Si tratta ovviamente di una pecca tutt’altro che marginale ma che per fortuna non crea danni irreparabili, né tanto meno annulla l’interesse per questa pellicola che è e rimane un buon film abbastanza coraggioso che ha portato alla luce in tempi non sospetti, il problema della tratta degli esseri umani con il conseguente cinico sfruttamento della disperazione dei migranti disposti anche a rischiare la vita in un mondo interessato solo al profitto che dà valore solo al denaro e si dimentica totalmente del fattore umano. Il film affronta in parallelo, anche quello delle barriere linguistiche e culturali che separano i popoli e le nazioni(potremmo aggiungerci il colore della pelle, le religioni e così via) cosa questa che fornisce alla pellicola una dimensione romantica (e anche un poco utopica) che è quella (abbastanza ovvia ma efficace) dell’innamoramento progressivo dei nostri due “eroi” (si fa per dire)i che alimenta almeno un soffio di speranza anche se entrambi sono perfettamente consci delle difficoltà (a partire da quella della mancanza di comunicazione verbale)quasi insormontabili che esistono nel cercare di portare avanti e mantenere viva una relazione che non ha basi comuni di partenza, tanto che il lieto infine risulta quasi impossibile da raggiungere.
Uno dei pregi maggiori di quest’opera che ha vinto molti premi dentro e fuori il territorio dei Balcani, è comunque quello di non aver utilizzato la cifra stilistica del realismo in senso stretto. Si parte ovviamente da quello ma si imbocca subito tutta un’altra strada che (come è già stato detto prima) porta ad altre suggestioni narrative strettamente legate ad altri generi e altre forme di racconto.
Infatti qui non ci si concentra solo sui traumi post-bellici del popolo bosniaco o sulle difficoltà oggettive nell’essere costretti a vivere in un mondo così tracotante e volgare gestito da figuri che sulle macerie della guerra hanno fondato un piccolo impero fatto di corruzione e mercato nero (che restano comunque gli snodi più importanti) ma viene anche sviscerata la sofferenza di una clandestinità imposta ai popoli migranti in fuga verso l’occidente (per questo parlavo prima di attualità tematica col presente). Tutto questo viene portato avanti dal regista dentro a un racconto intenso e ben orchestrato, reso addirittura palpitante nel confronto dialettico fra le due differenti tragedie (ma analogamente devastanti) vissute dai nostri due protagonisti che hanno indubbiamente origini così diverse ma anche molti punti di contatto nella spirale senza alcuna via d’uscita che li avvolge. Eentrambi senza più patria (lei perché in fuga dal suo paese nativo; lui perché è diventato un relitto disilluso che non riesce più a rapportarsi positivamente con la sua terra) devono confrontarsi anche con lo stesso dramma, quello della elaborazione di un lutto fortemente traumatico (la perdita del padre affogato nel naufragio sul fiume Sava per la ragazza; il ritrovamento dei corpi sepolti nella fossa comune dei suoi genitori – vedi la scena d’apertura dell’opera – per Mirko).
Ed è proprio in questo dualismo parallelo che a mio avviso si riscontra un andamento di evidente e netta discontinuità rispetto a quel poco di cinema balcanico che è arrivato fino a noi spesso più parziale e folkloristico (e forse anche meno profondo).
Una discontinuità che arriva davvero al cuore dello spettatore grazie al rapporto di affetto ed empatia che si sviluppa e cresce fra i due giovani in un silenzio “assordante” (perdonatemi l’ossimoro ) del quale le differenze linguistiche rappresentano davvero la giusta metafora.
Anche l’ambientazione(un paesaggio degradato, spoglio, sempre nebbioso e continuamente sferzato da una pioggia incessante è perfetta: la si potrebbe definire angosciante e particolarmente funzionale soprattutto in due scene: quella della sepoltura notturna di uno dei corpi degli annegati e quella ancora più toccante del ritrovamento nella fossa comune dei cadaveri, compresi quelli dei genitori di Mirko.
Un film dunque davvero molto potente (e questo nonostante le debolezze denunciate prima) e tutt’altro che perfetto ma che si conferma come un implacabile testimone della tragedia della guerra e delle sue conseguenze e che non teme di diventare a volte disturbante (sono molte le scene “forti” che propone) ma che al tempo stesso riesce ad essere anche etereo, quasi impalpabile come la nebbia notturna che avvolge tutta la pellicola.
Passato dal Torino Film Festival di molti anni fa (senza molto successo devo dire perché furono pochi gli spettatori che andarono a vederlo), non credo abbia poi avuto una successiva distribuzione nel circuito delle sale, ma, sia pure con qualche riserva è e rimane un’opera imperfetta che merita una visione.
[1] Abbiamo davvero poche notizie su questo regista (almeno io non sono riuscito a trovare fonti che diano informazioni più dettagliate al di là del fatto che è nato a Osijek nel 1957, che ha studiato economia per un breve periodo per poi iscriversi all’accademia di arti drammatiche di Zagabria disciplina “regia cinematografica e televisiva” nella quale si laureò nel 1981con una tesi sul dramma televisivo "The Early Maturation of Marko Kovac" che gli aprì le porte della Tv già dall’anno successivo in cui fu chiamato a girare Hildegard che riscosse un grande successo.
Ci si ferma più o meno qui. Resta solo da aggiungere che la sua carriera è costellata di importanti riconoscimenti soprattutto in patria e che il suo passaggio al lungometraggio per il grande schermo, avvenne nel 1988 con Sokol ga nije volio (Il falco non lo amava) basato sull'omonimo dramma di Fabijan Sovagovi? col quale vinse il premio Debut of the Year al Feature Film Festival di Pola.
[2] Filmografia (fonte Wikipedia)
Marko Kovac's Early Maturation, 1981, film TV
Hildegard, 1982, film TV
The Economic Life of Stipe Zvonarev, 1988, film TV
Sokol ga nije volio (1988.), film
Operazione Barbarossa, 1989, serie TV
Djuka Begovic (1991) , lungometraggio
Six Seconds for Life, 1992, documentario
Vukovar Memento, 1993, documentario
Vukovar Returns To Home (1994), lungometraggio
Natale a Vienna (1997) , lungometraggio
Mass for a New Life, 1998, documentario
Heart is out of fashion (2000) , lungometraggio
Queen of the Night (2001) , lungometraggio
Watermelon Road (2006) , lungometraggio
Metastases (2009) , lungometraggio
Cannibal Vegetarian (2012) , lungometraggio
Cherry Names (2015) , lungometraggio
Agape (2017), lungometraggio.
3. Il titolo del film è mutuato dal fatto che i clandestini vengono traghettati, ammassati all’inverosimile nella stiva (e non è certo una novità) di un cargo scalcinato di solito utilizzato per il l traporto dei meloni, o angurie che dir si voglia.
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