Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film
Pretenziosità altisonanti d'un giovane duo gemellare di registi già precocemente assurti al grado di "autori".
Favolacce (misteriosamente premiato per la sceneggiatura a Berlino) è un film faticoso, straniante, allucinante, tetro, morboso. A seconda dei casi, questi aggettivi – parrà forse un paradosso – nel mondo del cinema possono perfino assumere connotati in qualche modo positivi, dal punto di vista dell’arte. Non è questo il caso.
Siamo in presenza di un film che si è stuzzicati a vedere dal grande battage critico che lo precede e che, tragicamente, al momento della visione lascia allibiti, di fronte alla personale incapacità (dovuta, dicono, a deficienze mentali intrinseche) di comprendere le ragioni di tanto trambusto. Le ragioni che hanno portato certuni a ricoprire d’incenso film e suddetti autori. Quando Favolacce risulta essere film piuttosto banale che, a voler esser cinici, si potrebbe dire finisca quasi per autodefinirsi comicamente sin dal titolo, per non parlare poi della sarcastica “dichiarazione d’intenti” (“Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”). Già, decisamente non molto ispirata.
E’ quasi scontato dire si debba accettare, da prima ancora d’iniziare la visione, di trovarsi nell’alveo del racconto morale, della favola, in salsa extra dark, per così dire. Ecco, peccato solo che pure le favole debbano avere una qualche logica interna. Peccato che il destreggiarsi con la favola non giustifichi minimamente la mancanza d’immaginazione, anzi. Le favole spesso sono un tripudio d’immaginazione e inventiva, talora “brutta, sporca e cattiva”, talora no.
Mentre qui… la morale è scontata, e già vista e sentita mille altre volte, l’inventiva latita e le assurdità abbondano (le storie delle bombe fatte in casa e del veleno da sole sembrano quasi spunti involontariamente nonsense).
Come al solito, poi, quando si ha a che fare con certo cinema “indie” a quanto pare ci si deve rassegnare a sopportare tutta una serie di pretenziosità stilistiche di cui s’è fatto già cenno. E così via libera a sequenze interminabili (possibile che, per dimostrare un qualsivoglia punto, si debba far sorbire agli spettatori 2 minuti 2 di taglio di capelli con tanto di rasoio trafora-timpani?), inquadrature “ricercate”, sfocature ai lati, grandangoli a casaccio ecc.
In aggiunta, i personaggi sono abbastanza stereotipati, un poco piatti e in certi casi forse anche un poco improbabili, il messaggio “urlatissimo” ad ogni pie’ sospinto, e quindi il film fatica a coinvolgere, e non suscita neanche particolare angoscia (come parrebbe nelle intenzioni dei registi), ma piuttosto insopprimibile tedio.
In definitiva, si può ragionevolmente supporre le intenzioni fossero “buone” (anche se forse un po’ troppo didattico/didascaliche), l’unico problema è che è il risultato finale a non esserlo, altrettanto buono.
Nota a margine: è possibile che, ancora una volta, in un film italiano si debba fare così tanto fatica a capire cosa dicano i personaggi, in alcuni punti? (Un paio d’esempi: quando i due “migliori padri che io conosca” [cit.] machisti e sessualmente frustrati parlano tra loro a bassa voce, non ho captato che un paio di parole; quando il ragazzino e la ragazza “iper-dotata” memore probabilmente, come già notato da altri, della tabaccaia di Amarcord hanno un breve scambio sul bus: ebbene, l’avrete già indovinato, non ho sentito quasi nulla). Boh, forse, dico forse, il tutto è dovuto unicamente al mio udito e/o al mio impianto stereo, eh, possibilissimo.
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