Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film
Favolacce (2020): locandina
Diversamente dal primo film dei fratelli D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza), qui la trama non c’è, ma questo conta poco, Quel che pesa qui, in questo film corale, è la sottile desolazione che intride i mille personaggi divisi in due nette macrocategorie contrapposte: i grandi e i bambini; gli adulti irrimediabilmente guastati dalla vita e i bambini che intuiscono il loro destino, insanabilmente soli.
I grandi manifestano la irritante e finta vitalità, i teatrali e indisponenti atteggiamenti sotto i quali si intravvede l’indolenza di una esistenza immutabile; i piccoli non nascondono lo sgomento di diventare come gli adulti che li accudiscono (male).
Gli adulti, uomini e donne, sono caciaroni e ostentano una esuberanza borgatara fingendo di tenere a bada la consapevolezza di essere persi; i piccoli sono silenziosi e vagano nell’orbita di questo universo, quasi cercando di scomparire, ma restano ingabbiati nel vuoto sfilacciato.
I grandi assumono toni e organizzano la loro giornata fingendo di sapere cosa fare, come atteggiarsi, come trattare le persone; i piccoli, più o meno consapevoli, partecipano a queste false cerimonie della vita.
I grandi sguazzano nello squallore e se ne fregiano come se fosse una scelta o addirittura una conquista; i piccoli assistono sgomenti tentando di ritagliarsi angoli di rifugio e spiragli di evasione.
I grandi sono ottusi e irrimediabilmente perduti; i bambini sono confusamente consapevoli di essere predestinati.
Il mondo, pare di capire, non sarà salvato dai ragazzini, che ne restano estranei finché non impareranno a “uscire” o a costruirsi la maschera della rassegnazione che li potrà aiutare a sopportarne i miasmi.
E nel frattempo, povere anime, cercano appigli nella solidarietà fra predestinati; tentano di credere nelle possibilità salvifiche dell’amicizia o della scuola; desiderano la fantasia, sognano l’evasione; progettano perfino maldestre palingenesi anarchiche.
Ma le loro aspirazioni saranno interrotte, come interrotto è il diario ritrovato nella spazzatura che dà l’avvio alla narrazione.
I fatti si svolgono nei dintorni di Roma, a Spinaceto, per la precisione: non nelle baracche del peggior degrado e nemmeno nei palazzoni INA o Gescal immortalati dal cinema neorealista, ma in modeste casette monofamiliari, villette a schiera con giardinetti e piscine gonfiabili, piccoli insediamenti circondati da campi o boschetti.
Le famiglie che vi abitano appaiono, a prima vista, normali: ma se poi ci si avvicina - zoom - scopriamo coppie insoddisfatte e inquiete, ragazze incinte (ex bambine guastatesi con la pubertà) che progettano matrimoni riparatori, padri separati e immaturi che non sanno organizzare la routine familiare, vicini strampalati e meschini: troppi personaggi che nel torrido estate fanno confusione, irrilevanti e mediocri.
Nessun tessuto sociale, nessuna solidarietà di classe, tutte finto cameratismo e aridità (e le beghe vertono sul contagio dei pidocchi e inviti per trasmettere il morbillo).
Perfino l’insegnante, consapevole del degrado irrimediabile, appare emarginato, ambiguo, frustrato e impotente.
I bambini, che galleggiano disorientati in questo sfasciume incerto e per loro inaccettabile, tentano modi impacciati di intrecciare alleanze, sono amorfi e anaffettivi, sembrano in attesa di un diluvio (e si respira l’atmosfera hanekiana de Il nastro bianco). E le inquadrature più destabilizzanti sono i primi piani dei loro occhi immobili che ci interrogano e ci accusano.
Per leggere questo film da brividi bisogna forse inquadrarlo nel genere del grottesco (come certi film di Del Toro, dell’inquieto Lynch, del rarefatto Paul Thomas Anderson o del nichilista Ferreri).
Nell’incipit, una voce fuori campo ci avverte che tutto parte da un diario recuperato dall’immondizia che parla di "una storia vera, che vera non è, o forse sì”. Una favolaccia da incubo inevitabile, peggiore della Terra dell’abbastanza.
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