Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film
Diversamente dal primo film dei fratelli D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza), qui la trama non c’è, ma questo conta poco, Quel che pesa qui, in questo film corale, è la sottile desolazione che intride i mille personaggi divisi in due nette macrocategorie contrapposte: i grandi e i bambini; gli adulti irrimediabilmente guastati dalla vita e i bambini che intuiscono il loro destino, insanabilmente soli.
I grandi manifestano la irritante e finta vitalità, i teatrali e indisponenti atteggiamenti sotto i quali si intravvede l’indolenza di una esistenza immutabile; i piccoli non nascondono lo sgomento di diventare come gli adulti che li accudiscono (male).
Gli adulti, uomini e donne, sono caciaroni e ostentano una esuberanza borgatara fingendo di tenere a bada la consapevolezza di essere persi; i piccoli sono silenziosi e vagano nell’orbita di questo universo, quasi cercando di scomparire, ma restano ingabbiati nel vuoto sfilacciato.
I grandi assumono toni e organizzano la loro giornata fingendo di sapere cosa fare, come atteggiarsi, come trattare le persone; i piccoli, più o meno consapevoli, partecipano a queste false cerimonie della vita.
I grandi sguazzano nello squallore e se ne fregiano come se fosse una scelta o addirittura una conquista; i piccoli assistono sgomenti tentando di ritagliarsi angoli di rifugio e spiragli di evasione.
I grandi sono ottusi e irrimediabilmente perduti; i bambini sono confusamente consapevoli di essere predestinati.
Il mondo, pare di capire, non sarà salvato dai ragazzini, che ne restano estranei finché non impareranno a “uscire” o a costruirsi la maschera della rassegnazione che li potrà aiutare a sopportarne i miasmi.
E nel frattempo, povere anime, cercano appigli nella solidarietà fra predestinati; tentano di credere nelle possibilità salvifiche dell’amicizia o della scuola; desiderano la fantasia, sognano l’evasione; progettano perfino maldestre palingenesi anarchiche.
Ma le loro aspirazioni saranno interrotte, come interrotto è il diario ritrovato nella spazzatura che dà l’avvio alla narrazione.
I fatti si svolgono nei dintorni di Roma, a Spinaceto, per la precisione: non nelle baracche del peggior degrado e nemmeno nei palazzoni INA o Gescal immortalati dal cinema neorealista, ma in modeste casette monofamiliari, villette a schiera con giardinetti e piscine gonfiabili, piccoli insediamenti circondati da campi o boschetti.
Le famiglie che vi abitano appaiono, a prima vista, normali: ma se poi ci si avvicina - zoom - scopriamo coppie insoddisfatte e inquiete, ragazze incinte (ex bambine guastatesi con la pubertà) che progettano matrimoni riparatori, padri separati e immaturi che non sanno organizzare la routine familiare, vicini strampalati e meschini: troppi personaggi che nel torrido estate fanno confusione, irrilevanti e mediocri.
Nessun tessuto sociale, nessuna solidarietà di classe, tutte finto cameratismo e aridità (e le beghe vertono sul contagio dei pidocchi e inviti per trasmettere il morbillo).
Perfino l’insegnante, consapevole del degrado irrimediabile, appare emarginato, ambiguo, frustrato e impotente.
I bambini, che galleggiano disorientati in questo sfasciume incerto e per loro inaccettabile, tentano modi impacciati di intrecciare alleanze, sono amorfi e anaffettivi, sembrano in attesa di un diluvio (e si respira l’atmosfera hanekiana de Il nastro bianco). E le inquadrature più destabilizzanti sono i primi piani dei loro occhi immobili che ci interrogano e ci accusano.
Per leggere questo film da brividi bisogna forse inquadrarlo nel genere del grottesco (come certi film di Del Toro, dell’inquieto Lynch, del rarefatto Paul Thomas Anderson o del nichilista Ferreri).
Nell’incipit, una voce fuori campo ci avverte che tutto parte da un diario recuperato dall’immondizia che parla di "una storia vera, che vera non è, o forse sì”. Una favolaccia da incubo inevitabile, peggiore della Terra dell’abbastanza.
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