Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film
Favolacce. Fratellacci. Filmaccio.
Si apre s'una pagina dalla didascalia solenne e ammiccante, il favoloso Favolacce («Quanto segue è ispirato a una storia vera. Una storia vera ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata»): inchiostrata in bella grafia, nella astuta dichiarazione della menzogna, l'autoassoluzione del narratore e degli autori/narratori.
Un diario ritrovato che è anche lo "sfogo di un annoiato dalla vita" e chissà quante parti inventate contiene, un luogo-non luogo inesistente eppure possibile-riconoscibile-inconfondibile, una storia vera/verosimile che però forse ce n'è un'altra più realistica e si "ricomincia da zero": il racconto a tesi è mero artificio esibito, ridondante richiamo amoroso, banale meccanica (meta)narrativa.
Si susseguono atti e fatti e arie e facce; e le parole - dette, lette, scritte, sfogliate - come parte dell'escogitazione di un libro animato/filmato che (non) cela al suo interno tetre strutture pop-up, alla febbrile ricerca di una tridimensionalità paratestuale che però, rimane, appunto, solo su carta.
Quello che c'è è qualcosa. Qualunque cosa (possa destare estasiati ooh!).
Cose che dicono di una terra della periferia romana di villette e steccati, di famigliole all'apparenza felici e bambini geniali, di estati appiccicaticce e sudaticce, di padri-orchi e alienazioni da mondo perfetto, di violenze fuori campo e drammi annunciati, di conflitti generazionali e vacuità identitarie, di stranezze assortite e minacce incombenti (disegnate su volti ovviamente straniti).
E bla bla bla(terando inutili, insignificanti, considerazioni illuminate).
Il teatrino tragico-grottesco è da manuale, prevedibile e puntuale e risaputo come la presenza della coatta di turno, incartato su sfondi illustrati a regola d'arte quando la regola è l'illustrazione stessa, incrostato da vistosi strati di pensiero pesanti e pressanti, stressato da soluzioni sintetiche acide che dettano toni e contorni e riflessi(oni), fino alla sua nera (e ancora, prevedibile) conclusione.
Favolacce puzza di carta chimica, di clamoroso autocompiacimento. Puzza di confezionamento; una confezione imbellettata, post-posticcia (è nato prima l'involucro o il suo pedestre, schematico contenuto?), stilosa assai.
Favolacce è un corpo cartonato vuoto contrassegnato da ripetute note a margine, legende e spiegazioni, abitato da entità dalla parabola magnificamente scontata, strutturato su codici registici benfatti ma riciclati (tra inquadrature suggestive, dettagli feticisti, grandangoli deformanti, voice over invadenti, sequenze disturbanti-scioccanti).
Priva di sostanziale profondità, pervasa da una annoiata retorica facile e superficiale, inondata da grossolane chine tematico-stilistiche dalle stimmate ultraderivative e dagli effetti stitici, l'acclamata opera seconda, scritta e diretta dai fratelli D'Innocenzo, ha consistenza fatua e vive, unicamente, in funzione del fatto di essere un racconto che si svela - e sa di - essere raccont(at)o.
Sotto la chiassosa co(pe)rtina programmatica così orgogliosamente esibita, il nulla.
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